SOCIETÀ

Il rugby, il fascismo e l’università

“Chiamarono a raccolta pugilatori, calciatori in rotta con le rispettive società, cultori dell’atletica leggera e pesante […] Tutti furono immediatamente tassati di cinque lire e nacque di colpo una nuova società […] La domenica successiva, con un freddo polare, Pierobon, regolamento alla mano, tenne la prima lezione pratica. Cacciati via i freddolosi e i pusillanimi e coloro che dimostrarono di non gradire quel zogo da mati, ne restò a sufficienza per mettere in piedi una squadra”. Il 29 novembre 1927, alla presenza di una settantina di simpatizzanti, nasce la squadra di rugby Leoni di San Marco, la prima del Veneto. I promotori sono Amedeo Fusari, giornalista del Gazzettino, presidente del direttorio Veneto-Trentino della Fipo (Federazione italiana palla ovale) e organizzatore della maratona Padova-Venezia, e Pietro Pierobon, gestore di un noto locale della città. Il primo allenamento si tiene pochi giorni dopo, la domenica mattina, al campo del 58esimo Fanteria nei pressi di Prato della Valle.

Una foto dei Leoni di San Marco

Due anni più tardi, nell’autunno del 1929, la sezione sportiva del Gruppo universitario fascista organizza regolari allenamenti, il campo resta lo stesso, gli iscritti sono solo nove. Cinque anni più tardi, il Guf Padova partecipa al suo quinto campionato di rugby dichiarando 24 tesserati. Già nel dicembre 1928 la rivista Lo sport fascista definisce il rugby “il nostro sport”, riferendo le parole di Augusto Turati, figura di spicco del regime. Questi gli esordi del rugby a Padova, due storie parallele, dai destini differenti: “L’avventura della palla ovale indipendente, erede dei Leoni di San Marco e legata all’infaticabile impegno di Amedeo Fusari, procederà con andamento incerto, fra slanci e battute d’arresto, fra ambizioni rinnovate e sempre insoddisfatte, e attraverso varie denominazioni societarie (Rugby club Padova e A.f.c. le principali). In contrasto con la più stabile struttura del rugby istituzionale coltivato in seno all’università, al quale il sostegno del Guf garantirà una certa continuità e la partecipazione, fino allo scoppio della guerra, a dieci campionati italiani, sette consecutivi dal 1929 al 1936”.

Una foto del Guf Padova

Si intitola Sport di combattimento (Hoggar edizioni) e riassume già in una manciata di parole il senso del viaggio nel tempo che intende intraprendere. È un libro, con prefazione di Felice Fabrizio della Società italiana di storia dello sport, che racconta gli esordi del rugby in Veneto, ripercorrendo gli anni dal 1927 al 1945, con un focus dedicato all’università di Padova in epoca fascista. A indagare le origini di questo sport - partendo proprio dalla terra ovale per eccellenza e guardando a Padova e al suo ateneo come “centro di irradiazione della disciplina verso gli altri capoluoghi del Veneto”, tra tutti Rovigo - è il giornalista e storico del rugby Elvis Lucchese, il quale approfondisce il rapporto tra rugby e università, e così scrive: “Il quindicinale dei Gruppi universitari fascisti Il Bò, fondato nel 1935, si occupa regolarmente della squadra dell’ateneo, dando testimonianza delle sue vicende sportive ma anche del dibattito attorno alla disciplina e del modo in cui il rugby si autorappresentasse allora”. E Lucchese continua: “I primi numeri della rivista informano della presenza al Guf dell’allenatore Julien Saby, distaccato a Padova dalla Fir”. È lo stesso Saby a scrivere un articolo, sulle pagine de Il Bò, in cui esalta la bellezza e l’unicità del rugby: “Studenti, destinati a essere i migliori della vostra grande Nazione, ecco le ragioni sentimentali, per cui dovete amare gli sports di squadra, gli sports educatori, fra i quali il nostro gioco, il rugby, ha il primo posto”. Uno sport per “aristocratici di cuore e di pensiero”, educativo ma al tempo stesso rischioso, uno sport di combattimento, “[…] sintesi di potenza intellettuale e virile”.

Ai Littoriali dello sport, manifestazione istituita nel 1933 e sostenuta con convinzione dalla propaganda del regime, sono tre le formazioni presenti: Padova, Napoli e Genova, ritiratesi dal campionato per concentrarsi solo sulla competizione universitaria. Nel 1934 la Mostra del cinema di Venezia premia Stadio, primo film a tematica rugbistica, diretto da Franco Campogalliani su soggetto di Romolo Marcellini, in cui recitano attori non professionisti, atleti veri come i rugbisti della Nazionale ai Giochi internazionali universitari di Torino, e in cui ritorna con forza l’idealizzazione dell’atleta universitario: “Libro e moschetto, fascista perfetto”. Nel 1938 il Guf Padova trionfa ai Littoriali di Napoli: il leader è Gustavo Piva, dal gennaio dello stesso anno anche direttore della rivista Il Bò. Solo nel 1939 il rugby diventa disciplina facoltativa ai Littoriali e nello stesso anno entra in crisi e regala pochi successi. Il Bò non ha dubbi: il problema risiede nel mancato ricambio generazionale, nell’assenza di una guida tecnica di valore, nel nascente mercato dei migliori atleti scippati dai Guf maggiori con la conseguente minaccia del professionismo sportivo universitario, da condannare senza riserve: “Solo attaccando la mala pianta del professionismo tra gli universitari si riuscirà a riportare lo sport goliardico alle sue tradizioni”. Nel 1939, il Guf - “alfiere della palla ovale nel Veneto”, come scrive sempre Il Bò - interrompe l’attività “travasando risorse ed esperienze nell’A.R. Padova”. Ma, in tempo di guerra, il rugby non si presenta solo come sport di combattimento sul campo da gioco, simbolo di coraggio e valori, pallone tra le mani: le società, infatti, si trasformano in “fucine di atleti e di eroi”. Ai giocatori, chiamati a diventar soldati, il conflitto segna profondamente l’esistenza, imponendo di scegliere tra fascismo e antifascismo. In un’immagine del 1936, pubblicata dalla rivista della Federazione italiana rugby, due rugbisti padovani, impegnati in Africa Orientale, reggono il cartello “Rugby sport di combattimento – Calcio di trasformazione in Etiopia!”. La Fir esalta il valore dei due giocatori che “non s’empiono la bocca di parole soltanto […], ma diventano combattenti sul serio”.

Due rugbisti padovani in Africa orientale

Nel febbraio 1941 viene pubblicato un “albo d’onore del rugby fascista, in cui tra le vittime sono registrati i due del Guf Padova, Angelo Gasparotto e Venceslao Magagnotto” (Il Bò definisce il medico e rugbista Gasparotto, “goliardo vivace ed esuberante, magnifica figura di sportivo”). Nel 1941 il Comitato olimpico nazionale italiano cura una statistica degli atleti caduti in battaglia: dieci i rugbisti morti, la perdita più pesante per una federazione sportiva. Le cronache radiofoniche dello sport, mandate in onda dall’Eiar tra il 1933 e il 1939, creano una stretta relazione tra il rugby e l’impegno bellico: “È verso la meta che tutta la compagine corre compatta e poderosa, penetrando le maglie della squadra avversaria con il vigore irresistibile della propria decisione. È alla meta che la palla viene portata superando e stroncando quanti avversari vorrebbero rubarla per schiacciarla al suolo al di là dei limiti della meta nemica per prendere possesso di questa come sigillo di volontà”.

Se le urgenze del conflitto mettono in pausa lo sport, il rugby in Veneto rinasce all’indomani della Liberazione: l’Associazione Rugby Padova si riorganizza a partire dall’autunno del 1945, reclutando anche un buon numero di ex giocatori dell’università. “I codici della guerra, così calzanti nel giornalismo sportivo - scrive Lucchese, citando un articolo del Gazzettino del 4 settembre 1945 in cui si racconta di una partita anticipata da uno scambio di fiori “il cui profumo sembra abbia ingentilito la rudezza del gioco” – hanno ormai lasciato spazio a un linguaggio che parla di cavalleria, speranza, felicità”.

Francesca Boccaletto

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