CULTURA

Sangue, sudore e t-shirt

Non è facile, di questi tempi, trovare il tempo e la voglia di leggere un libro di 640 pagine, un libro dove non si parla di amori adolescenziali ma di fabbriche e di telai meccanici, di proletari e di schiavi, di varietà di cotone e terre disboscate per far spazio al prezioso oro bianco, di libri contabili e oscillazioni di Borsa, di contadini costretti a coltivare cotone (come in India e in Cina) per rispondere sempre più alle richieste mondiali e di Stati imperialisti che aprivano la strada, con armi e burocrazia, al capitalismo in tutto il mondo: “La violenza legata alla costruzione dei mercati – costringere le persone a lavorare in determinati luoghi e in un determinato modo – è rimasta una costante di tutta la storia dell’impero del cotone”. Così scrive Sven Beckert nel suo importante, L’impero del cotone. Una storia globale, meritatamente tradotto da Einaudi.

La relazione tra capitalismo e schiavitù, uno degli argomenti di questo saggio, non è una novità. Eugene D. Genovese, storico americano, in Economia politica della schiavitù (pubblicato da Einaudi nel 1972) aveva messo in luce l’intreccio tra capitalismo e sistemi sociali pre-capitalistici come la servitù della gleba e la schiavitù. Stranamente, Genovese è citato solo una volta da Sven Beckert in questo grande affresco di storia globale il cui protagonista è il cotone, forse la commodity più importante del XIX secolo dopo il carbone. La storia del cotone, che Beckert segue sin dall’antichità, è legata all’esplosione del capitalismo industriale in Europa. In particolare, e come è noto, la rivoluzione industriale inglese è legata all’innovazione delle manifatture tessili e al ruolo del cotone; non le miniere, non il ferro, non il tabacco, bensì il cotone è la chiave per capire il capitalismo del XIX secolo e la sua irresistibile diffusione e presenza anche in aree apparentemente marginali. Il cotone è ovunque: negli indumenti, nelle banconote, nel sapone, nella polvere da sparo, nella carta e anche quando l’industria del cotone non è più al vertice rimane ancora una voce importante dell’economia mondiale; scrive Beckert infatti che nel 2013 “sono stati prodotti almeno 123 milioni di balle di cotone, ognuna dal peso di 400 libbre – sufficiente a fabbricare 20 magliette per ogni abitante della terra”.

I mercanti inglesi acquistavano cotone grezzo in tutto il mondo. In Inghilterra, a metà dell’Ottocento, erano concentrati i 2/3 delle macchine per la filatura del cotone, dalle quali usciva un prodotto finito (filati in particolare) che raggiungeva i mercati mondiali. Operai, macchine, vapore, città in piena espansione come Manchester, Liverpool erano al centro di una rete, senza precedenti nella storia dell’economica, che collegava Asia, Americhe, Africa ed Europa. È impossibile dare conto nel giro di poche righe della ricchezza di dati e di risultati della ricostruzione di Beckert, storico dell’Harvard University: si tratta di una ricerca che copre gli archivi di quattro continenti (da Liverpool a Osaka, da Mumbai al Cairo, per esempio). Basti segnalare qualche aspetto decisivo.

Con la crescita impressionante di consumo di cotone da parte del mercato mondiale i capitalisti inglesi dovettero sempre più approvvigionarsi del materiale grezzo. Il sud degli Stati Uniti fu il luogo ideale dove potevano incrociarsi sistema schiavistico, capitalismo ed espropriazione di terre ai nativi americani per poter coltivare sempre più cotone con manodopera a basso costo: tra il 1835 e il 1842 agli Cherokee e ai Seminole furono sottratte le terre da loro abitate in Georgia e in Florida.

Nel 1860 tre quarti del cotone prodotto negli Stati Uniti arrivano dagli stati a ovest della Georgia e della Carolina del sud comprese, scrive Beckert: “Fino alla Guerra di secessione, il cotone e lo schiavismo si propagarono di pari passo, cosicché Gran Bretagna e Stati Uniti divennero i due fulcri gemelli dell’emergente impero del cotone”. Scrisse Marx (nel capitolo 13 del I libro del Capitale) che il 1860 era stato l’anno dello zenit dell’industria cotoniera.

L’espansione del commercio del cotone era così intrecciata alla disponibilità di manodopera in schiavitù che William Rathbone VI, un mercante di Liverpool, nel 1849 poteva scrivere al padre che “i negri e tutto il resto fluttuano insieme con le oscillazioni del cotone” e il Liverpool Chronicle scriveva allarmato che “se i negri si fossero prima o poi emancipati i prezzi del cotone sarebbero triplicati con conseguenze devastanti per i profitti inglesi”. E, infine, l’American Cotton Planter, una rivista di settore dell’Alabama, che recava in copertina un bel motto virgiliano, scriveva nel 1853 che la schiavitù “era una benedizione incalcolabile per il genere umano”.

La schiavitù non è un fatto arcaico, dunque, ma una tappa della storia del capitalismo globale del XIX secolo e nello stesso tempo il peccato originale della storia degli Stati Uniti. Lo ha scritto con ricchezza di dati Edward Baptist in The Half Has Never Been Told: the Slavery and the Rise of American Capistalism: la schiavitù è uno dei modi attraverso il quale gli americani bianchi hanno effettuato una delle più gigantesche e violente estrazioni di plusvalore da esseri umani.

La storia del cotone è ripercorsa da Beckert ben oltre la Civil War americana e la prima grande crisi mondiale delle materie prima della storia. La sua indagine si estende fino alla crisi dell’industria tessile inglese nella seconda meta del Novecento e alla nascita di nuove reti di produzione e trasformazione che hanno sostituito l’Europa e gli Stati Uniti nel commercio del cotone. Oggi la camicia che indossiamo è fatta da cotone coltivato in Cina, India, Uzbekistan o Senegal, filato e tessuto in Cina, Turchia o Pakistan e infine confezionato in Bangladesh o Vietnam.

In Cina viene lavorato il 43% di tutto il cotone grezzo mondiale grazie al basso prezzo di semi, fertilizzanti, manodopera e alla coltivazione di immensi territori concessi dallo Stato che si occupa anche di reprimere ogni richiesta sindacale per mantenere bassi i salari. In Bangladesh gli operai che confezionano i capi in cotone, indossati da europei e americani, lavorano in condizioni estremamente precarie, peggiori di quelle della Londra di Dickens, mentre in Uzbekistan il governo costringe ogni anno circa due milioni di ragazzi, sotto i 15 anni, a prendere parte alla raccolta del cotone, una produzione che vale un miliardo di dollari. La storia di Re Cotone non è finita, ha solo cambiato geografie, protagonisti, comprimari e vittime.

Sebastiano Leotta

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