SOCIETÀ

Crisi ambientale, equità e salute globale

In Siccità, ultimo lavoro cinematografico di Paolo Virzì, uscito nelle sale italiane nel 2022, il regista immaginava una Roma distopica ma futuribile, in cui non piove da anni, il Tevere è ormai secco e in città si sta diffondendo un’ignota malattia infettiva tropicale. Uno scenario certo distopico, ma non così lontano dalla realtà: circostanze simili non sono pura fantasia, ma si avvicinano molto alle meno ottimistiche tra le proiezioni condivise periodicamente dagli organismi scientifici internazionali che si occupano di monitorare la progressione dell’attuale crisi ambientale.

Siccità ed epidemie, infatti, sono eventi che hanno contraddistinto l’esperienza quotidiana di gran parte della popolazione mondiale negli ultimi anni. La triplice crisi ambientale, infatti, determina queste ed altre – persino peggiori – conseguenze. Inoltre, la crisi ambientale (composta da cambiamento climatico, riduzione della biodiversità, inquinamento, degrado dei suoli) esacerba le già esistenti diseguaglianze sociali ed economiche, generando un cortocircuito spesso difficile da disinnescare.

Una delle interazioni più evidenti tra la questione ambientale e i problemi sociali è quella che lega la salute umana alla salute ambientale. Laddove vengono meno gli equilibri ecosistemici, la stabilità climatica, la disponibilità di servizi ecosistemici, anche la salute delle persone è esposta a rischi maggiori. Da alcuni anni, la rivista scientifica The Lancet, punto di riferimento mondiale per le conoscenze in ambito medico e ambientale, ha avviato l’iniziativa Lancet Countdown, che si pone l’obiettivo di monitorare i progressi in tema di salute e cambiamento climatico. Ogni anno viene pubblicato un rapporto che fa il punto sulla situazione corrente e sulle opportunità di miglioramento.

L’ultima edizione del rapporto, pubblicata alla fine del 2023, lancia un messaggio molto chiaro: dare priorità alla tutela della salute è essenziale in un mondo che va incontro ad alterazioni e danni ormai irreversibili. Gli impatti della crisi ambientale sulla salute sono sempre più evidenti, così come è evidente il legame tra vulnerabilità sociale ed esposizione ai rischi emergenti in un pianeta in rapido cambiamento.

Vittime della crisi ambientale

È ormai certo che il cambiamento climatico uccide. Il bilancio di vittime ambientali sale di anno in anno, in proporzione diretta con l’aumento delle temperature, il procedere del degrado ambientale e la disarticolazione degli ecosistemi. La distribuzione di queste vittime, inoltre, è profondamente ineguale, e riflette le diseguaglianze strutturali che caratterizzano l’odierna società globalizzata. Negli ultimi cinque anni, le persone che vivono in Asia, Africa, America centrale e meridionale e nei piccoli paesi insulari in via di sviluppo (SIDS, Small Island Developing States) hanno subìto il maggior numero di giorni con picchi di temperature pericolosi per la salute, il che ha influito anche sulla produttività (riducendo significativamente i giorni effettivi di lavoro) e sulla sicurezza alimentare, idrica ed energetica, messe in crisi dai prolungati e sempre più frequenti periodi di siccità.

Tra i vari impatti che colpiscono in modo ineguale le popolazioni umane vi è l’aumento delle temperature: questo fenomeno accelera a sua volta la fusione dei ghiacciai, portando all’innalzamento del livello del mare e dunque a un maggiore livello di rischio nelle aree costiere, più esposte non soltanto alle inondazioni, ma anche alla diffusione di agenti patogeni come quelli appartenenti al genere Vibrio (di cui fa parte anche il batterio che causa il colera, V. cholerae). Inoltre, l’incremento delle temperature medie globali porta a un’estensione delle nicchie ecologiche (cioè le aree in cui una specie può sopravvivere) di molti animali che sono vettori di agenti patogeni pericolosi per la salute umana. È il caso della malaria, della dengue, e anche del virus West Nile (tutte malattie infettive trasmette da diverse specie di zanzare), ormai endemico in molte parti dell’area mediterranea, dell’Europa centrale e orientale.


LEGGI ANCHE


 

La vulnerabilità agli effetti della crisi ambientale «dipende da caratteristiche epidemiologiche e socio-economiche locali distribuite in modo molto ineguale», si legge nel rapporto di Lancet. Vi è una correlazione diretta, ad esempio, tra la distribuzione degli investimenti in infrastrutture per la produzione di energia da fonti rinnovabili (solo l’1% degli investimenti globali del 2022 era concentrato in Africa, nonostante il continente abbia molte risorse da sfruttare in tal senso) e la qualità dell’aria: la mancanza di investimenti in fonti pulite di energia, infatti, perpetua la dipendenza da fonti altamente inquinanti (non solo i combustibili fossili, ma anche la combustione di biomasse inquinanti e rifiuti: questi ultimi rappresentano l’84% del consumo energetico domestico in Africa, il 46% nei SIDS, il 33% in Sud e centro America, il 32% in Asia), con un prezzo molto alto per la salute pubblica.

A fronte di queste evidenze, la risposta più ragionevole da parte dei governi sarebbe eliminare gli investimenti, ancora oggi consistenti, ai combustibili fossili e dirottarli su forme di produzione energetica sostenibili e non dannose per la salute umana e ambientale: un intervento ancora decisamente poco praticato, dal momento che i sussidi alle aziende produttrici di combustibili fossili sono ancora oggi più alti di oltre il 10% rispetto alla spesa sanitaria nazionale nel 30% degli 87 paesi censiti dagli autori del Lancet Countdown Report 2023.

Una transizione giusta

Uno degli interventi più urgenti per sperare di mitigare il cambiamento climatico e, al contempo, per ridurre in modo significativo i rischi per la salute umana e l’inquinamento degli ecosistemi è una rapida decarbonizzazione di tutti i settori produttivi, dai trasporti all’agricoltura, dal turismo al digitale. Lo smantellamento dell’industria fossile, tuttavia, rischia di essere doloroso se non realizzato con la dovuta attenzione – ancora una volta – alle persone più vulnerabili. Ad oggi, evidenzia il rapporto di Lancet, l’80% del fabbisogno energetico mondiale è soddisfatto dai combustibili fossili, la cui produzione ha continuato ad aumentare negli ultimi anni (anche in risposta all’aumento della popolazione umana mondiale). Secondo quanto si legge nel rapporto, «un giusto sviluppo dei mercati dell’energia rinnovabile può generare un aumento netto delle opportunità di impiego, con posti di lavoro più sicuri e disponibili a livello locale».

Per raggiungere tale obiettivo, l’impegno dei governi nel dare priorità alla salute delle persone, piuttosto che ai profitti di poche aziende multinazionali, è un prerequisito indispensabile: «Reindirizzare il supporto istituzionale dal sussidiare i combustibili fossili ad incentivare l’espansione e garantire l’accessibilità di un’energia a ridotta impronta carbonica, a sostenere la tutela della salute e promuovere la salute pubblica, e a offrire altri mezzi di supporto a coloro che potrebbero soffrire di più per il potenziale incremento dei prezzi dell’energia garantirebbe non solo benefici per la salute e il benessere, ma contribuirebbe anche a sostenere una transizione giusta».

Parola chiave: adattamento

In sintesi, la priorità dei governi dovrebbe essere proprio la tutela della salute delle persone, con un’attenzione particolare ai più vulnerabili per condizioni sociali ed economiche preesistenti. Ciò significa aumentare in modo significativo la spesa per i servizi sanitari, che si trovano sempre più in prima linea nel rispondere alle nuove patologie causate dalla mutata situazione ambientale. Qualcosa si muove, come riporta Lancet Countdown: nel 2022, 11 dei 64 paesi che, durante la COP26 di Glasgow, si sono impegnati a costruire sistemi sanitari resilienti alla sfida climatica hanno completato una valutazione di vulnerabilità e adattamento, ma solo 4 dei 64 paesi hanno redatto un piano di adattamento sanitario (Health National Adaptation Plan); 848 delle 898 città censite hanno condotto una valutazione locale del rischio climatico, e tra le 50 che non lo hanno completato, la maggior parte ha dichiarato di essere stata impedita da ridotte possibilità finanziarie o capacità tecniche, o dalla mancanza di entrambi.

Per far sì che le misure di adattamento siano efficaci, è essenziale – si sottolinea nel rapporto – che gli interventi siano realizzati con la collaborazione di esperti in ambito medico, urbanistico, energetico, amministrativo. La sfida dell’adattamento deve essere affrontata con un approccio olistico, che tenga in considerazione i diversi fattori di rischio che incombono sulla salute pubblica: «Sapendo che ulteriori cambiamenti del clima sono ormai inevitabili, le necessità di adattamento continueranno a crescere, e per proteggere la salute di tutte le popolazioni gli sforzi per l’adattamento devono essere urgentemente aumentati».

One Health

A livello internazionale, l’attenzione alle interconnessioni tra salute umana e ambientale è sempre più alta. Come ben espresso, ad esempio, nell’ideazione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030, questa attenzione nasce dalla consapevolezza che le società umane, e quindi anche la nostra salute, dipendono in modo essenziale dal benessere del pianeta e dei sistemi (biosfera, idrosfera, geosfera, atmosfera) che lo compongono.

Il precipitato di tale consapevolezza è il concetto di One Health, entrato formalmente nel discorso scientifico occidentale da pochi anni (ma con illustri antecedenti nella storia del pensiero umano: sono molte le culture non occidentali che considerano la co-appartenenza tra esseri umani e non umani una caratteristica essenziale ed oggettiva della realtà) e ancor più di recente incardinato a livello istituzionale, come ad esempio testimonia, oltre alla già citata Agenda 2030, il “Global One Health Joint Plan of Action 2022-26”, iniziativa promossa congiuntamente da UNEP (Programma Ambientale delle Nazioni Unite), FAO (Food and Agriculture Organization), OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e WOAH (Organizzazione Mondiale della Sanità Animale).

Come afferma Anna Odone, professoressa ordinaria di Igiene all’università di Pavia e coordinatrice del dottorato nazionale ‘One Health Approaches to Infectious Diseases and Lifescience Research’, a cui abbiamo rivolto alcune domande su come il concetto di One Health si stia facendo strada nella teoria e nella pratica medica, il piano d’azione mira a condividere a livello globale «una strategia comune in chiave One Health e ad armonizzare la sua implementazione a livello nazionale. Tra i suoi punti cardine prevede, da un lato, il rafforzamento di un coordinamento centrale a livello nazionale, dall’altro l’attuazione sistematica dei programmi a livello locale».

Come emerge anche dal monitoraggio di Lancet Countdown, quando si tratta dell’implementazione di questo approccio olistico i paesi corrono ancora a velocità diverse. Un tema centrale riguarda la promozione di una duratura ed efficace sinergia tra la dimensione istituzionale e governativa e il sistema sanitario, che – è evidente nel rapporto di Lancet – si trova in prima linea nel contrastare i rischi posti dalla crisi ambientale. In tal senso l’Italia è, almeno sul piano teorico, allineata con l’orientamento internazionale, come spiega Odone: «Il Piano Nazionale della Prevenzione 2020-2025, ovvero lo strumento centrale di pianificazione degli interventi di prevenzione e promozione della salute, indica l’ottica One Health tra i suoi princìpi costitutivi. Inoltre, il nuovo Piano Nazionale di Contrasto all’Antibiotico-Resistenza (PNCAR) 2022-2025 inserisce tra i sei obiettivi strategici per la riduzione dell’incidenza e dell’impatto delle infezioni resistenti agli antibiotici proprio il rafforzamento di un approccio One Health». Tuttavia, continua la professoressa, «ciascuno di questi documenti prevede l’adozione dei corrispettivi piani a livello regionale e territoriale: il grado di dettaglio operativo con cui vengono declinati determina il reale impatto delle politiche sanitarie a livello locale».

I fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) hanno dato nuova centralità a questo approccio e alla sua applicazione su scala nazionale e locale. «Una maggiore integrazione tra gli apparati centrali e i check-point organizzativi regionali sarà decisiva per una strategia One Health vincente», specifica l’esperta. E alcune misure sono già sul tavolo: «Tra le misure urgenti per l’attuazione del (PNRR), il Sistema Nazionale per la Prevenzione della Salute dai rischi ambientali e climatici (SNPS) mira a favorire l’integrazione fra politiche sanitarie e ambientali, stabilendo una continuità funzionale tra Dipartimenti di Prevenzione delle ASL e le ARPA (Agenzie Regionali per la Protezione Ambientale)».

È essenziale che queste iniziative non rimangano solo nella dimensione istituzionale, ma passino al piano pratico il prima possibile. La pratica medica, infatti, beneficerebbe alquanto dell’adozione di un approccio One Health, soprattutto in ragione della necessità di far fronte a pressioni sempre maggiori determinate da un ambiente più rischioso per la salute umana.

«L’approccio One Health – spiega Odone – può applicarsi a diversi ambiti della ricerca medica: per esempio, per affrontare le nuove malattie infettive trasmesse da vettori, come West Nile e dengue, nuovi modelli per la previsione dell’insorgenza della malattia nell’uomo non possono ormai prescindere dalla comprensione dei meccanismi di trasmissione all’interfaccia uomo-animale-ambiente, e potranno presto essere impiegati in aggiunta agli attuali sistemi di monitoraggio e sorveglianza.

«Il nuovo dottorato di interesse nazionale “One Health Approaches to Infectious Diseases and Life Science Research”, nasce proprio da questa consapevolezza, e offre importanti opportunità di formazione e ricerca alle nuove generazioni di medici e scienziati. Questo – conclude la professoressa – non è che un esempio degli investimenti che il PNRR ha riservato alla ricerca in ambito One Health in Italia, con l’obiettivo di mettere a disposizione dei policymaker nell’ambito della sanità pubblica strumenti di prevenzione e monitoraggio sempre più raffinati, che tengano conto delle diverse variabili in gioco e delle loro interconnessioni».

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012