Mi trovo all’interno del museo dell’Educazione dell’università di Padova con oggetti che raccontano la storia della pedagogia e dell’educazione dell’ultimo secolo. Al mio fianco un mappamondo che mi permette di collegarmi al tema di oggi: il cambiamento climatico con un cortocircuito tra il passato di questo museo e un futuro distopico.
Vi voglio, infatti, parlare di Siccità, l’ultimo film di Paolo Virzì. È una pellicola coraggiosa e difficile, visto l’argomento di cui tratta. Concede qualcosa al fantastico distopico con il fiume Tevere in secca, ridotto a un letto di sabbia, insetti che invadono a milioni la città, epidemie che esplodono in una Roma in cui ha smesso di piovere. Da qui la siccità del titolo con trame intrecciate dei diversi personaggi. Si immagina un esperimento sociale: è accaduto un fatto radicale e cosa succede alle nostre vite? Virzì riesce, però, a raccontare questa nuova normalità. Il regista s’immagina come questi fenomeni entreranno nella nostra vita, ci abitueremo gradualmente. Vivremo scontri generazionali, vedremo politici inadeguati e/o assenti. Ci salverà la memoria di quello che eravamo prima e ci salverà il fare comunità. Il film rientra nel grande progetto di provare a raccontare i cambiamenti del pianeta, fenomeno complesso e non lineare, non solo con i dati scientifici ma mescolando i linguaggi. Mettendo, quindi, insieme la scienza con il cinema, con l’arte, la musica ecc. Al di là del singolo film, non è un caso che grandi scrittori, artisti e musicisti si stiano occupando di clima. E non sono d’accordo con chi dice che si tratti di una moda. È una sensibilità che si traduce in diversi linguaggi.