SCIENZA E RICERCA

Agricoltura biologica e biodiversità

Negli ultimi decenni l’agricoltura è stata un fattore chiave nella perdita di biodiversità, da un lato per la trasformazione di terreni naturali in terreni agricoli, dall’altro per la diffusione di colture intensive. Le pratiche agricole incidono sulla varietà delle specie presenti per l’utilizzo di fertilizzanti e pesticidi, per le lavorazioni profonde dei suoli, per la rimozione di habitat semi-naturali come le siepi, le fasce alberate, i prati o per il ricorso a lavorazioni meccaniche (si pensi al calpestamento esercitato da macchine operatrici sempre più pesanti). 

Una soluzione sembra venire dalla coltivazione biologica che, al contrario, riduce l’impatto ambientale e favorisce la biodiversità. Ne parla uno studio pubblicato il 24 giugno 2014 su Nature Communications, nell’ambito del progetto europeo BioBio concluso nel 2013. Si tratta dell’indagine più estesa condotta finora in Europa e in Africa cui hanno contribuito oltre all’università di Padova, istituzioni universitarie in Svizzera, Austria, Tunisia, Ungheria, Francia, Regno Unito, Norvegia, Paesi Bassi, Spagna, Germania, Uganda, Bulgaria e Ucraina. 

Gli impatti benefici sull’ambiente costituiscono una delle ragioni per cui si promuove questo metodo di coltivazione anche con incentivi economici. Eppure non è così semplice (né poco costoso) “misurare” la biodiversità, tanto più che gran parte delle ricerche finora condotte hanno analizzato le singole colture e non dimensioni più vaste come l’azienda agricola o il territorio circostante. E i risultati in un caso non sono trasferibili all’altro. Si aggiunga poi che in un’azienda agricola possono esistere anche 20-25 ambienti differenti da campionare: esistono campi dedicati a diverse colture, ci possono essere alberi isolati, filari e bordi dei campi, incolti, tutti elementi che vanno studiati separatamente. 

I ricercatori, dunque, hanno preso in esame 1.470 campi (che comprendono gli appezzamenti veri e propri ma anche le siepi, le capezzagne, l’erba ecc...), 205 aziende agricole (una parte ad agricoltura biologica e una parte convenzionale) in 12 regioni dell’Europa e dell’Africa che comprendono ambienti dal boreale al tropicale. Sono stati considerati quattro gruppi tassonomici come bioindicatori, e cioè le piante, i lombrichi, i ragni e le api, selezionati per rappresentare i diversi habitat, i livelli trofici e le risposte attese dalla gestione agricola. Per ognuno dei gruppi sono stati esaminati l’abbondanza di organismi presenti, la ricchezza e uniformità di specie.   

Risultato: il guadagno in termini di biodiversità che deriva dall’agricoltura biologica rispetto ai metodi di coltivazione tradizionale è stato confermato. Nello specifico, nei campi a coltivazione biologica i quattro bioindicatori esaminati sono complessivamente del 10% più vari e numerosi, piante e api soprattutto. La percentuale totale diminuisce invece se si analizza la situazione a livello territoriale più esteso (3%), dove l’agricoltura biologica contribuisce poco all’eterogeneità degli habitat, punto chiave per la biodiversità dei territori agricoli. 

“Nelle aziende agricole biologiche – sottolinea Maurizio Paoletti del dipartimento di biologia dell’università di Padova e coordinatore nazionale dello studio – si fa un uso più moderato di prodotti antiparassitari e di lavorazioni meccaniche e ciò concorre a migliorare le caratteristiche specifiche della biodiversità. A favorire la diversità biologica è inoltre la quantità di ‘ambienti’ differenti nella stessa azienda, assieme ai sistemi colturali e alla rotazione”. A livello regionale, invece, se la distribuzione delle aziende biologiche è puntiforme nel territorio, il beneficio ambientale è inferiore; al contrario in presenza di addensamenti in aree abbastanza ristrette i vantaggi in termini di biodiversità sono superiori per la presenza di distretti biologici. 

L’agricoltura biologica, sottolinea lo studio, è caratterizzata in generale da un apporto di azoto inferiore del 22%, da un minor utilizzo di pesticidi (-76%) e di macchinari (-9%). Questo metodo di coltivazione segue dei protocolli che prevedono l’utilizzo di fertilizzanti e antiparassitari di origine naturale che, pur non essendo del tutto innocui, sono tuttavia meno tossici rispetto alle sostanze impiegate nell’agricoltura convenzionale. 

“Non si deve dimenticare – sottolinea Paoletti – che la biodiversità  fornisce un servizio ecologico all’ambiente coltivato perché garantisce la presenza di impollinatori, di detritivori (organismi che si  nutrono di materiali organici in decomposizione, Ndr) che migliorano il ciclo della sostanza organica, di predatori e parassitoidi. I lombrichi profondi scavatori, ad esempio, svolgono una funzione fondamentale direzionando attività di funghi, batteri, respirazione ed evoluzione dei suoli”. E se si considera che un terzo della superficie terrestre è destinato all’agricoltura, si intuisce dunque quanto possa essere strategico conoscere la varietà delle specie esistenti per promuovere quelle che contribuiscono alla resa agricola e far fronte invece ad altre che influiscono negativamente.  

In Veneto, in particolare, esiste talora una coscienza molto protesa a salvaguardare il suolo e la ricchezza di sostanza organica, a diminuire le lavorazioni, a tenere “infrastrutture” come siepi e filari ai margini dei campi, a praticare sovesci (cioè a sotterrare piante o parti di piante allo stato fresco per “correggere” terreni troppo compatti). Un approccio che non è obbligatorio e fa di alcune aziende sui colli Euganei e Berici, ad esempio, dei veri e propri modelli al di là delle etichette biologiche convenzionali. “Nel panorama internazionale – conclude Paoletti – credo che la qualità dell’ambiente del nostro territorio faccia parte dell’appeal del prodotto che viene offerto”.   

Monica Panetto

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