CULTURA

Contro la dittatura dell'utile

Un vestito di marca, l’automobile e il telefonino all’ultima moda: utili. Un libro, una visita a un museo: inutili. Ingegneria, economia e statistica: utili. Letteratura, fisica, storia e poesia: inutili. I valori della società odierna sembrano tremendamente chiari: è utile solo ciò che dà un profitto, oppure che può costituire oggetto di un godimento immediato. Ma è davvero così, lo è sempre stato? Affronta il problema Nuccio Ordine, docente universitario di letteratura italiana in questi giorni a Padova per una conferenza, nel suo ultimo fortunato saggio: L’utilità dell’inutile. Manifesto (Bompiani 2014).

Esistono – questa è la sua tesi – saperi ritenuti “inutili” che invece si rivelano di una straordinaria utilità, sia per i singoli che per la società nel suo complesso. Così come non tutto ciò che sembra utile poi si rivela veramente tale. Il saggio di Ordine, studioso di Giordano Bruno e del Rinascimento, ripercorre un pezzo di storia del pensiero attraverso le riflessioni di grandi filosofi e letterati: da Platone a Ovidio, da Zhuang-zi a Baudelaire. Il risultato è una perorazione appassionata e coinvolgente a favore della filosofia, della scienza e dell’arte, e della loro superiorità rispetto alle applicazioni materiali. Se, secondo la Metafisica di Aristotele, la scienza nasce dal “puro scopo di sapere e non per qualche bisogno pratico”, è vero anche che, come scriveva Henri Poincaré, “chi lavora soltanto in vista di applicazioni immediate non lascerebbe niente dietro di sé”. “Basta aprire gli occhi – continuava il grande matematico – per rendersi conto che tutte le conquiste dell’industria, che hanno arricchito un così gran numero di ‘uomini pratici’, non sarebbero mai state realizzate se fossero esistiti solo questi uomini pratici, se costoro non fossero stati preceduti da pazzi disinteressati, morti in miseria, che non hanno mai pensato al profitto e ciò non di meno avevano una guida diversa dal proprio esclusivo capriccio”.

È però vero anche il contrario: la ricerca della verità e della bellezza dà certamente qualcosa che i soldi non possono dare; allo stesso tempo però anche per essa è spesso necessario il denaro, o per lo meno di una certa sicurezza. Pensiamo solo al ruolo dei committenti e dei collezionisti, da Filippo II di Macedonia per Aristotele a Peggy Guggenheim, all’Aby Warburg citato dallo stesso autore. Un paradosso? Sul punto interpelliamo proprio Nuccio Ordine: “Questo libro non è un libro contro l’utile in generale – risponde l’autore – ma solo contro quello fine a se stesso. Non predichiamo la povertà da francescani: si può usare il profitto anche per migliorare l’umanità, non solo per arricchire. Un grande imprenditore come Adriano Olivetti investiva nella cultura e nel benessere dei suoi operai, e non era un utopista: ha creato il personal computer prima degli americani. Oggi però il modello non sembra essere più quello”.

Lo schema sembra anzi essere rovesciato: è la cultura che deve in qualche modo entrare al servizio del profitto. “L’utilitarismo sta invadendo tutti i settori – continua Ordine  – Guardiamo alla scuola o all’università: ovunque si parla continuamente di debiti e di crediti, i direttori si chiamano dirigenti scolastici, i professori devono passare tre quarti del loro tempo a riempire schede e fare riunioni, piuttosto che a studiare e a preparare le lezioni… Credo inoltre che cercare di professionalizzare ragazzi fin dai 13-14 anni sia una grandissima idiozia. A quell’età i ragazzi devono capire che a scuola non si va per avere un diploma o per far soldi, ma per diventare persone migliori, più libere e consapevoli”.

Sorge però il dubbio: se l’utilità della cultura oggi non viene colta dall’opinione pubblica, non ci sarà anche una responsabilità da parte di chi questo patrimonio deve preservarlo e trasmetterlo: in primis gli accademici e gli intellettuali? “Questo è un vecchio argomento che ritengo assolutamente debole. La questione non è che bisognerebbe valorizzare l’inutile, cioè la cultura, ma che questa società guarda assolutamente ad altri valori. Faccio un esempio: non è che bisogna spiegare che il Colosseo è importante perché può portare a un guadagno. Il punto è che è già importante da un punto di vista storico e artistico: perché può servire a creare un’identità e una memoria, una coscienza civile, perché è una fonte di bellezza”.

Pubblicato la prima volta in Francia e già tradotto in 13 lingue, il libro di Ordine si propone, come recita il titolo, come un orgoglioso manifesto della cultura per la cultura contro la “barbarie dell’utile”. Il risultato è un volume piacevole e allo stesso tempo profondo, colto ma non didascalico, pieno di citazioni e spunti interessanti, a cominciare da un piccolo saggio di Abraham Flexner in appendice, per la prima volta tradotto in italiano. Anche se nella concatenazione qualcosa ogni tanto sembra sfuggire, soprattutto nella continua messa in contrapposizione tra profitto e sapere. Molto infatti dipende da quello che si vuole considerare cultura: basti pensare a quello che rappresenta Hollywood per gli Stati Uniti, l’industria discografica per il Regno Unito e la moda per la Francia e per il nostro paese. E non è forse profitto anche quello che si ricava (o si dovrebbe ricavare) dalla vendita di un libro, dal biglietto di una mostra, da proprio lavoro di studioso o di docente? Tralasciando pensatori come Marx e Weber, non è forse vero che valori come il lavoro, lo sviluppo e il giusto guadagno, oggi presenti anche nella nostra Costituzione, hanno anche fecondato la storia del pensiero e dell’arte (sul tema v. ad esempio L’arte della libertà, di Salvatore Carrubba e Flavio Caroli, Mondadori 2004)?  Forse quête filosofica e vivere quotidiano sono in realtà molto più intrecciati di quanto siamo abituati a pensare. E la presunta contrapposizione tra il mondo della cultura e quello dell’economia, oggi più che mai soprattutto in Italia, avrebbe bisogno ogni tanto di essere superata, piuttosto che continuamente ribadita.

Daniele Mont D'Arpizio

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