CULTURA

Il mito dell'obbedienza assoluta e del soldato buono

Una riflessione in tre puntate con lo storico tedesco Lutz Klinkhammer, esperto dei crimini di guerra tedeschi compiuti in Italia durante la seconda guerra mondiale, e con l’italiano Filippo Focardi, ricercatore specializzato nella memoria del fascismo. Attraverso i temi dell’obbedienza, della responsabilità – non solo giudiziaria – e della memoria. In Germania come in Italia.

Professor Klinkhammer tra chi si è macchiato di crimini di guerra molti hanno sostenuto di aver obbedito a un ordine del Führer, un fatto che sembrerebbe confermare il mito dell’onnipotenza di Hitler. Le cose stanno davvero così?

Anche un dittatore come Hitler non gestiva tutto nei dettagli ma dava ampie deleghe. Di fronte a ordini abbastanza generici, i gerarchi maggiori entravano in concorrenza tra loro per ‘riempirli’ di contenuti e rispondere alle aspettative del dittatore. Ma ci sono anche esempi di disposizioni più concrete, che tuttavia non definivano il destino del singolo e richiedevano un’interpretazione da parte dei comandi inferiori. C’è infine un gruppo di ordini che riguardava specifici avvenimenti: è il caso di quello che impone di non fare prigionieri italiani a Cefalonia. In questo caso c'erano margini di discrezionalità ridotti, ma potevano comunque verificarsi dei cambiamenti.

Può fare un esempio?

A Cefalonia in un primo momento l’ordine prevedeva la fucilazione di chi non avesse consegnato subito le armi, mentre in seconda battuta veniva stabilito di fucilare gli ufficiali e di trattare i soldati che si erano arresi dopo il combattimento in maniera più flessibile. Ma Lanz, il comandante del XXII corpo d’armata volle essere 'rassicurato' dai suoi superiori sul contenuto di questa seconda disposizione: eppure nessuno di loro, da Weiss a Keitel, il comandante in capo delle forze armate, se la sentì di prendere una decisione. Di fronte all’insistenza di Lanz la palla ritornò allo stesso Hitler [L’epilogo di quella vicenda racconta di circa 9.700 morti e dispersi tra Cefalonia e Corfù, ndr].

Lo zelo non sembra sufficiente a spiegare gli avvenimenti. Da dove nasce allora il mito dell’obbedienza?

Nasce dalla difesa nei processi post-bellici, un modo per scaricare la responsabilità sul Capo ed evitare le condanne. È avvenuto anche nel caso degli ufficiali nei Balcani e in Grecia: di fronte al rischio di una condanna a morte, i protagonisti si nascosero dietro l’obbedienza agli ordini del Führer. Ma gli ordini potevano essere a loro volta influenzati anche dal modo in cui si stilava il rapporto su un evento; al contrario chiedere la conferma di un ordine ai superiori poteva produrre l’effetto di inasprirlo. Certo, in questo caso c’era comunque un vantaggio per chi lo eseguiva: la deresponsabilizzazione.

Che non fu però totale: si ricordano casi di militari che agirono diversamente.

Si possono fare alcuni esempi, anche se è più difficile trovarli. C’è il caso dell’uccisione del generale tedesco Crisolli in provincia di Pistoia: i responsabili militari locali non decisero alcun atto di rappresaglia nei confronti della popolazione civile per non essere riusciti a catturare i colpevoli dell’attentato. C’è poi la protesta di un ufficiale di stato maggiore, che si chiamava Von Dohna. Aveva letto un rapporto del capitano di cavalleria Von Loeben della divisione SS Hermann Goering, il quale nel riportare il compimento di un’operazione antipartigiana – con un bottino limitato di fucili ma un gran numero di civili uccisi – si giustificava dicendo di aver agito secondo le disposizioni che Hitler aveva emanato per la lotta antipartigiana nell’Est europeo. A margine di quel rapporto Von Dohna criticò l’applicazione di quell’ordine e l’uccisione dei civili. Quello che emerge è il fatto che lo stesso addestramento dei militari influenzava le diverse pratiche di dominazione del territorio: basti pensare che a Marzabotto, nel 1944, solo pochi mesi prima della strage di fine settembre ci fu un’altra operazione di rastrellamento. Nonostante la presenza dei partigiani in zona l’operazione si concluse con due vittime, ma senza l’eccidio di civili che di lì a poco avrebbero compiuto i reparti delle SS.

All’apparenza una conferma dello stereotipo delle SS cattive contrapposte a una Wehrmacht pulita. Quando nasce e perché si afferma questa rappresentazione?

Tra gli accusati nei processi dell’immediato dopoguerra c’era anche un ampio numero di comandanti della Wehrmacht e non solo SS. Ma in tanti casi la difesa si basò su una finzione, cioè l’aver rispettato le leggi di guerra. Ci sono poi altri elementi che rendono necessaria la rimozione degli eventi negativi in contrasto con il mito della 'pulizia' della Wehrmacht: l’ampia politica di condono applicata dagli americani nel clima della guerra fredda (i comandanti in Grecia e Jugoslavia, condannati a Norimberga, venivano rilasciati già nel 1951); il disegno di includere i tedeschi nel progetto, poi fallito, della Comunità europea di difesa, che doveva portare al riarmo tedesco; la dichiarazione del cancelliere Adenauer “sull’onore” delle forze armate tedesche e della Wehrmacht [il Cancelliere pronuncia la sua Ehrenerklärung il 3 dicembre 1952 davanti al Parlamento tedesco, ndr]; il ripescaggio a partire dal 1956 nelle nuove Forze Armate della Germania federale di ufficiali già ‘protagonisti’ in guerra.

Fino a quando continua questa lettura degli avvenimenti?

È un’interpretazione che si è conservata nell’opinione pubblica fino alla caduta del Muro di Berlino, ma che viene spazzata via dalla storiografia (gli studiosi Gerhard Schreiber e Christian Streit parlano ad esempio di 3 milioni di prigionieri russi morti nelle mani della Wehrmacht) e da una mostra degli anni ’90 sui crimini di guerra commessi dalla Wehrmacht sul fronte orientale, dal 1941 al 1944. Una mostra che generò critiche, fu contrastata da alcuni storici che accusavano di falsità qualche sua parte, produsse le proteste dei politici ... ma ebbe anche un grande successo di pubblico e una vasta risonanza sulla stampa. Venne poi sostituita da una seconda mostra, più equilibrata, ma fu proprio la sua forza provocatoria a sovvertire il giudizio generale sull’operato delle Forze Armate. La verità è che la maggioranza della popolazione era disposta ad accettare questo rovesciamento nella lettura dei fatti.

Con quali conseguenze?

Si passò dalla difesa a oltranza della Wehrmacht a un attacco che portava a rappresentare come criminale il 100% dei soldati. Si arrivò forse troppo facilmente alla generalizzazione del giudizio negativo sull’operato dei soldati. Se ad esempio si considera il caso dell’Italia, i soldati tedeschi impegnati nell’occupazione furono 700.000 (di cui 100.000 morti al fronte) mentre le vittime delle stragi di civili, a seconda delle ricostruzioni, sono un numero compreso tra le 10.000 e le 15.000 persone. Quindi solo una piccola parte dei soldati tedeschi poteva aver commesso questi crimini. (1/continua)

Carlo Calore

 

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012