SOCIETÀ

Il ritorno della fabbrica in Europa. Made in China

Forni spenti, capannoni silenziosi, raccordi ferroviari dismessi, fabbriche con poche decine di addetti in cui si fanno poche lavorazioni di eccellenza. In Italia da anni siamo abituati ad aree industriali semiabbandonate, con investimenti e produzioni che si spostano alla ricerca di maggior profitto in un'economia sempre più dominata dalla mobilità della finanza, da un lato. E, dall'altro, a negozi pieni di ogni possibile prodotto a prezzi fino a pochi anni fa inimmaginabili, a cominciare dall'alta tecnologia come tablet, smartphone, videocamere e computer, tutti, o quasi, prodotti altrove. In Asia, in Turchia, all'est; in Messico, per gli Usa; in Corea e – per tutti – in Cina. La globalizzazione, i suoi effetti, le sue dinamiche sono state ampiamente raccontate in questi anni, e l'immagine che ne risulta guardando dal nostro Paese è ormai consapevolezza diffusa. Ma cosa succede se si inverte lo sguardo, e invece di seguire il filo della finanza, da qui ai nuovi paesi produttori, si segue quello del lavoro, guardando dall'Asia e soprattutto dalla Cina nella nostra direzione?

È la domanda che si sono posti, con un progetto di ricerca tutt'ora in pieno svolgimento, due studiosi di sociologia del lavoro e delle migrazioni, Rutvica Andrijasevic, dell'università di Leicester in Gran Bretagna e Devi Sacchetto, del dipartimento Fisspa dell'università di Padova. Obiettivo, mettere a fuoco un nuovo modello di lavoro, di investimento e di impresa che si è sviluppato in Cina ma oggi è in rapida espansione nel resto del mondo, Europa comunitaria compresa. Iniziato nella Repubblica Ceca e proseguito in Turchia, lo studio mira ad analizzare e comparare le pratiche lavorative e manageriali di uno dei maggiori produttori al mondo di elettronica di consumo, la Foxconn, in Europa e in Cina. Un filone di ricerca, racconta Sacchetto, che nasce dall'interesse per le trasformazioni del mondo del lavoro a livello dell'economia globale, superando la tradizionale impostazione che vede un centro e delle periferie e indagandone le dinamiche di rete. Punto di riferimento, le ricerche sulla Cina di Pun Ngai, sociologa che opera fra l'Inghilterra e la Repubblica Popolare e che ha portato alcuni dei contributi più approfonditi degli ultimi anni sulle dinamiche del lavoro nella "Fabbrica del Mondo". 

La multinazionale taiwanese dalle cui fabbriche nelle zone economiche speciali cinesi escono buona parte dei prodotti di Hewlett & Packard, Apple, Sony sta da alcuni anni aprendo impianti nel resto del mondo, dal Messico all'Europa (Repubblica Ceca, Slovacchia, Russia) alla Turchia. Il lavoro, dunque, non si allontana soltanto dall'Europa verso l'Asia, ma fa anche il percorso inverso, con investimenti per ora modesti rispetto a quelli nel luogo d'origine ma per nulla trascurabili. E prende la forma di fabbriche nelle quali vige un particolare sistema produttivo, organizzativo e di reclutamento della manodopera, frutto della combinazione fra il "lavoro cinese" degli impianti giganti della Cina continentale e le peculiarità – legislative, anzitutto – locali e comunitarie.

Prima tappa, Pardubice, un centinaio di chilometri a est di Praga. Qui c'è il principale stabilimento della Foxconn nella Repubblica Ceca, cui si aggiungono la fabbrica di Kutna Hora, a est, e quella di Nitra poco oltre il confine con la Slovacchia. Il committente è uno solo, Hewlett & Packard, per il quale Pardubice produce computer, laptop, server e cartucce, ma a lavorare sulle diverse linee di montaggio si trovano fianco a fianco cechi, slovacchi, bulgari, romeni ed anche vietnamiti e mongoli, lungo canali di reclutamento e migratori che seguono tanto i recenti ingressi nell'Europa comunitaria (Romania, Bulgaria) quanto i legami storici all'interno dell'ex blocco orientale. Accanto ai dipendenti diretti, locali e in minor misura slovacchi, sono impegnati su turni di 10 o 12 ore i lavoratori migranti, con contratti interinali e reclutati da agenzie internazionali che forniscono loro anche alloggio in dormitori o pensioni e trasporto al luogo di lavoro, trattenendo una parte dello stipendio. 

A seconda dei momenti e della richiesta, lavorano da un giorno alla settimana a quattro o cinque, con preavviso brevissimo (un sms due-tre ore prima di presentarsi), e nei periodi "morti" possono essere rimandati a casa. Le mansioni sono semplici, ma estremamente rapide, dai 40 ai 60 secondi, e video a ciclo continuo provvedono a istruire il personale che ha un turn-over molto alto, oltre il 30% annuo, dato dalla fatica e dall'incertezza sul guadagno mensile. La fabbrica, in questo modo, è un vero e proprio elastico che può "restringersi" fino al solo personale diretto o arrivare a raddoppiare con gli interinali, senza che i due gruppi, in costante competizione, abbiano rapporti fra loro: le linee di produzione sono separate per prodotto, per modalità di impiego e anche per etnia, nella maggior parte dei casi. 

Discorso simile per lo stabilimento di Corlu, nella Turchia europea, secondo impianto visitato da Andrijasevic e Sacchetto. Qui si trova una zona economica speciale posta lungo il "corridoio europeo 4", che da Istanbul attraversa i Balcani verso Sofia, Vienna, Norimberga, nella quale gli investitori possono beneficiare di molte agevolazioni come esenzione totale dell’Iva e delle tasse sia sui profitti sia sui salari, nel caso almeno l’85% della produzione sia per l'export. La manodopera a Corlu è soprattutto locale e le agenzie interinali hanno un ruolo marginale, ma la flessibilità è ugualmente presente in forma massiccia, con gli operai che possono lavorare da uno a sei giorni alla settimana con anticipi di poche ore sulla chiamata, e il ruolo dello Stato e del suo sostegno agli investimenti è del pari essenziale. Contribuiscono infatti ad abbassare il costo del lavoro sia i disoccupati "in formazione" sia gli studenti delle scuole professionali, la cui retribuzione è in buona parte versata dalle autorità; la no-tax area di Corlu porta di fatto i salari molto vicini alle retribuzioni cinesi: 3-400 euro mensili.

In tutti questi stabilimenti la direzione, affidata a manager inglesi e cinesi, ha modo di sperimentare forme di flessibilità e di intensificazione del lavoro che rappresentano un modello ibrido fra modalità occidentali e cinesi, con salari "intermedi" (fra i 400 e i 600 euro). Lontani dai numeri delle fabbriche cinesi –  10.000 addetti circa contro milioni – ma con la possibilità, cruciale in termini di competitività per la rapidità di risposta alle richieste del mercato e per ragioni doganali, di essere all'interno dell'Unione o di accordi di libero scambio (Corlu) e, grazie alla detassazione, di avere un costo del lavoro contenuto.

Un quadro, quello delineato dalla ricerca in corso, che ci restituisce un panorama in rapida trasformazione, con modalità di lavoro che credevamo confinate lontano e che invece emergono all'interno della stessa Unione europea, come la flessibilità spinta all'estremo, il sistema dei dormitori, l'impiego a salari e condizioni differenziati di lavoratori diretti e indiretti, la mobilità della manodopera di luogo in luogo. 

Con alcune sorprese, a partire dalla constatazione che quello che pensavamo come centro del centro – cioè "noi" – sta cambiando: l'economia globale è davvero  una rete e davvero, ormai, multipolare. Dove il lavoro di fabbrica è tutt'altro che un'eredità del passato: lungi dall'estinguersi, non è mai stato tanto diffuso nel mondo, e in forme mutate sta tornando anche in Europa. E dove gli si spostano ovunque investimenti, ma anche i lavoratori, fra Paesi e mestieri diversi, in cerca di condizioni migliori. Come l'operaio rumeno intervistato nella ricerca che racconta di essersi spostato dalla Slovacchia all'Ungheria all'Italia, per poi abbandonarla per un calo delle retribuzioni, tornare in Romania e approdare quindi alla Foxconn in Repubblica Ceca. Non solo il lavoro intellettuale sta diventando "europeo", insomma. E scoprire che c'è più Europa di quanto si potesse pensare, nelle vite delle persone e non solo nei grafici degli investitori, è forse una delle scoperte più interessanti di questa ricerca. Prossima tappa, un convegno di due giorni a fine giugno, a Padova: titolo provvisorio, Form of Labour in EU and China. The case of Foxconn

Michele Ravagnolo

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