SOCIETÀ

Ridare dignità ai detenuti non è solo questione di lavoro

Interiorizzare l’idea di legalità per dare nuovo slancio e legittimità all’Italia. E per farlo, passare attraverso un percorso condiviso che parta dai giovani, attivando anche canali di dibattito all’interno delle università. Lavoro per i detenuti, reintegro nella società, deflazione delle carceri e pene alternative. Sono questi i punti cardine su cui è necessario lavorare per Paola Severino, ministro della Giustizia, in questi giorni in visita nelle carceri del Veneto per verificare di persona la situazione all’interno degli istituti detentivi.

Sono 66.000 i detenuti ospitati nelle carceri italiane, a fronte però di una capienza massima censita di 45.743 posti. Un sovraffollamento disumano in cui le difficoltà di vita si legano a quelle per un futuro e corretto reinserimento nel sociale, una volta conclusa la pena. È difficile affermare il contrario: in Italia la recidiva da reato, una volta usciti dal carcere, si attesta sul 60% e numeri alla mano, il Paese è ben distante dal rispettare l’articolo 27 della Costituzione, secondo cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Rieducazione che dovrebbe (condizionale d’obbligo) passare attraverso la possibilità di dare opportunità di lavoro al detenuto durante la sua pena. Ma in Italia sono solo 2.000 i carcerati che godono di questo privilegio. Troppo pochi, se si considera anche che il rinnovo della legge Smuraglia, che prevede agevolazioni per le imprese che assumono detenuti (stanziamento di 4 milioni e 600.000 euro all’anno dal 2000), si è arenato in Parlamento.

“Deve cambiare la mentalità di fondo - argomenta il ministro Severino - a Padova i risultati sul lavoro per i detenuti manifestano un abbattimento della recidiva e dimostrano come l’opportunità di lavoro per un condannato lo aiuti nel suo futuro percorso di integrazione nella società”. Non si conoscono infatti casi di detenuti, tra quelli selezionati per lavorare all’esterno delle mura del carcere, che abbiano dato problemi di ordine pubblico. “Non è vero - prosegue il guardasigilli - che dare un impiego a un condannato arrechi un danno, tantomeno che si sottraggano posti di lavoro che spesso vengono rifiutati dai cittadini”. In questo senso, le opportunità di lavoro dovrebbero essere serie e non una pratica fine a se stessa utile solo per far passare il tempo al detenuto. Serve insomma anche un contributo dell’imprenditore “che dovrebbe essere in grado di vedere il detenuto come una risorsa per la produttività e non solamente come una forma di aiuto sociale”, specifica Severino. Che ricorda come venne osteggiata la sua proposta di mandare i carcerati in Emilia Romagna per la ricostruzione del dopo terremoto: “Alla fine quel progetto è stato avviato - ricorda il ministro - con ottimi risultati e senza alcuna lamentela da parte dei cittadini”.

Ma il lavoro è solo una parte del mosaico per ridare dignità a chi sconta una pena. Si deve agire in modo strutturale attraverso provvedimenti che mirino a migliorare il quadro generale. Uno di questi riguarda la deflazione carceraria. Il decreto “salva carceri” ha dato un primo risultato, a cui si sta affiancando il piano di edilizia carceraria “che ha già dato 3.500 posti in più”, dice Severino, mentre a regime dovrebbe fruttare 11.000 nuovi posti disponibili.

Il ministro pone poi l’accento sul problema del carcere preventivo che considera “sconfortante - dice - Scontare la pena dopo una condanna è una cosa, farlo durante il processo rischia di creare un senso di ribellione nel detenuto che poi alimenta altri problemi”. Difficile non immaginarlo, di fronte alle carenze e ai sovraffollamenti presenti nelle case circondariali, Padova compresa.

Infine, Paola Severino torna a puntare sulla questione difficile delle pene alternative: “Il carcere - conclude - dev’essere l’extrema ratio di un Paese, quando altri tipi di pene non hanno funzionato. Io credo in questo progetto perché ci permette di affrontare il problema delle carceri. Si devono far funzionare in via principale le altre pene, come la messa alla prova o l’esclusione del processo per fatti considerati veramente tenui e meritevoli di perdono”. Il ministro si riferisce a un episodio in particolare: “Penso al caso dei due pensionati che avevano prelevato dal banco di un supermercato poco più di un etto di prosciutto e un po’ di mozzarella. Sono quei casi che meritano il processo o la detenzione? Un po’ di sana deflazione in questi casi è estremamente importante”. Anche a livello economico: un detenuto costa alla comunità 140 euro al giorno, se per alcuni di questi il carcere non fosse una misura indispensabile, anche l’economia italiana ringrazierebbe. 

 

Mattia Sopelsa

Il ministro della Giustizia Paola Severino

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012