SCIENZA E RICERCA

Siamo carnivori e viviamo più a lungo

La vita media in Giappone ha raggiunto ormai gli 84 anni. In Italia è solo un po’ inferiore: 82 anni. Sono i due paesi con la speranza di vita alla nascita maggiore. Molto sopra la media mondiale, che comunque ha raggiunto i 66 anni. Certo, alcuni organismi vivono anche più a lungo. Ma la maggior parte delle specie animali ha una vita media decisamente inferiore. Quella dei nostri cugini più prossimi, gli scimpanzé, non supera, per esempio, i 13 anni. 

Perché gli uomini vivono così a lungo? La domanda se la pongono da tempo molti studiosi. Facendone seguire, ovviamente, l’altra: potremo vivere ancora di più? C’è un limite invalicabile alla speranza di vita di Homo sapiens?

Il set di questioni è stato di recente proposto da Heather Pringle sul numero di settembre dello Scientific American, nell’articolo con cui la giornalista ci ha aggiornato sugli ultimi sviluppi degli studi genetici su antiche mummie umane di ogni continente. Sviluppi tutt’altro che attesi, perché collidono con un antico paradigma, secondo cui la svolta nell’aspettativa di vita di Homo sapiens si sarebbe avuta di recente, non più di 10.000 anni fa, a seguito di una grande innovazione, l’agricoltura e l’allevamento, che ha consentito ai membri della nostra specie sia di accedere a una quantità crescente di cibo, sia di organizzare una società più complessa, capace di proteggerci meglio dai pericoli dell’ambiente e di curare meglio, con la medicina, le ingiurie al nostro corpo. La crescita dell’aspettativa di vita degli umani è poi di nuovo aumentata in seguito alla rivoluzione industriale, che ha consentito di aumentare la quantità di risorse a disposizione, di migliorare le condizioni complessive di vita, di sviluppare un’efficiente medicina scientifica.

Tutto questo è, naturalmente, vero. Prova ne sia che nell’ultimo secolo l’età media è praticamente raddoppiata. In Italia è passata da circa 40 a oltre 80 anni di vita. Ma, come ci dicono gli studi di antropologia genetica indicati da Heather Pringle sullo Scientific American e gli studi di antropologia evolutiva richiamati, per esempio, nell’edizione del 2009 dell’Handbook of Theories of Aging, l’aumento della speranza di vita degli umani è molto più antica: risale ad almeno due milioni di anni fa e alle prime specie del genere Homo

Ed è il frutto, secondo tre antropologi evolutivi dell’americana University of New Mexico – Hillard Kaplan e Michael Gurven, direttori del Tsimane Health and Life History Project, e Jeffrey Winking – di tre fattori su cui hanno agito tanto la selezione naturale quanto l’evoluzione culturale. 

I tre propongono una vera “teoria evolutiva della lunga vita dell’uomo”. Ma, come è tipico della scienza, fondano la loro teoria su alcuni fatti empirici. In particolare sullo studio di dieci diverse comunità di “raccoglitori e cacciatori” della foresta amazzonica o di altre parte del mondo e cinque diverse comunità di scimpanzé, oltre da analisi tipiche dell’antropologia molecolare.  

Il primo fattore che già due milioni di anni fa ha portato alla divergenza tra la vita media degli Homo (compresi i sapiens, apparsi solo 200.000 anni fa) e quella dei Pan (gli scimpanzé) è la dieta. Gli scimpanzé ricavano il 95% delle loro cibo da collected resources, ovvero da cibo che può essere facilmente accessibile: frutta, foglie, fiori e altre parti di piante facili da raggiungere. Gli uomini solo l’8%. Anche molto prima di diventare agricoltore e raccoglitore, i membri del genere Homo hanno iniziato a cibarsi di carne e grassi animali. Misurato in calorie, la dieta degli umani – che pure è molto variegata – si basa da un minimo del 30% a un massimo dell’80% su cibo ricavato da altri animali vertebrati. Solo il 2% della dieta degli scimpanzé proviene da altri animali. Inoltre, anche nella componente vegetale, gli umani hanno imparato a cibarsi di radici, noccioli, semi. In altri termini gli Homo si sono specializzati nella ricerca di cibo più difficile da trovare, ma molto nutriente. Il che ha consentito loro di trovare l’energia per un numero maggiore di cicli riproduttivi. La capacità riproduttiva si è dunque estesa nel tempo, rendendo vantaggiosa in termini adattativi una vita media più elevata.

Il fattore dieta con una componente importante di cibo animale sembra essere  confermata dagli studi di antropologia molecolare citati dallo Scientific American.

Ma, secondo quanto scrivono Kaplan e i suoi colleghi nel saggio An Evolutionary Theory of Human Life Span: Embodied Capital and the Human Adaptive Complex, c’è un secondo fattore, la net production. Negli umani, anche grazie alla loro dieta, per i primi venti anni di vita – la nascita, la fanciullezza, l’adolescenza – il consumo di energia è superiore alla produzione di energia. E il bilancio negativo è crescente fino ai 14 anni. Poi il trend si inverte e solo dopo i 20 anni gli uomini diventano produttori netti di energia. Raggiungendo il picco intorno ai 45 anni. Gli uomini adulti mostrano la maggiore efficienza energetica. Ma restano produttori netti di energia fino ai 65 anni, per poi tornare ad essere dissipatori di energia. 

La dieta consente all’uomo, nella sua prima fase di sviluppo, di investire molto nel cervello (gran consumatore di energia), oltre che nel fisico. Il che favorisce l’apprendimento e, dunque, la capacità di minimizzare i rischi ambientali, con un ulteriore contributo all’allungamento della vita. 

Il terzo fattore co-evolutivo è la specializzazione di genere nella raccolta e nella caccia. Nelle dieci comunità umane di raccoglitori e cacciatori moderni indagate, i maschi acquisiscono il 68% delle calorie e l’88% delle proteine consumate dalla tribù. I maschi, però, consumano solo il 38% delle calorie totali. Le altre sono consumate dalle donne (31%) e dai piccoli (31%). In pratica, il 97% delle calorie consumate dai cuccioli d’uomo sono procurate dagli adulti maschi. Tutto questo consente alle donne di accumulare riserve energetiche per la gestazione e, soprattutto, tempo e possibilità di accudire la prole. 

Il combinato disposto di questi tre fattori ha consentito alle diverse specie del genere Homo di allungare progressivamente l’aspettativa di vita per circa due milioni di anni. Molto prima che la rivoluzione dell’agricoltura e la rivoluzione industriale consentisse ai sapiens nuove accelerazioni.

Se questa teoria è vera, quali implicazioni ha per la seconda domanda: ovvero sull’esistenza di un limite superiore all’aspettativa di vita della nostra specie? 

Finora si sono confrontate due scuole di pensiero. C’è chi sostiene che non c’è alcun limite prossimo e che migliorando le condizioni al contorno, la vita media dell’uomo può giungere e magari superare i 120 anni. Al contrario, altri sostengono che abbiamo sostanzialmente già raggiunto il limite massimo, perché esisterebbe un orologio biologico che non si può violare. 

Se la teoria evolutiva di Kaplan e degli altri è fondata, si può affermare che entrambe le posizioni propongono una parte di verità. Grazie al combinato disposto della dieta, della curva di produzione netta di energia e di cure parentali l’uomo può continuare ad aumentare la sua vita media. Ma è anche vero, tuttavia, che dopo i 65 anni – estendibili a 70 – quando la produzione netta di energia torna negativa, cessa il vantaggio evolutivo della lunga età. E, dunque, non c’è da sperare in nuovi clamorosi aumenti dell’aspettativa di vita. 

Lo dimostrerebbe il fatto che, raggiunti i 65 anni, l’aspettativa di vita cambia in maniera brusca e inizia a diminuire nettamente. Una modalità sconosciuta agli scimpanzé, la cui curva di vita media declina in maniera asintotica, dolcemente e senza scossoni. In definitiva, la nostra aspettativa di vita, raggiunta la tarda età, sembra impattare contro un muro difficile da superare. Quella dei nostri cugini scimpanzé (e, probabilmente, di molte altre specie animali) si spegne invece in un “flebile lamento”.  

Pietro Greco

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