CULTURA

Sul corpo delle donne. Ne "Le rane" di Mo Yan 50 anni di storia cinese

Migliaia di rane gracidanti, pronte nella notte scura ad assalire e a dilaniare le carni. È l’incubo che spinge Wan Xin – protagonista di uno degli ultimi romanzi di Mo Yan – a iniziare una terza vita, dopo averne già vissute due. Nella prima, levatrice e ostetrica, fa nascere migliaia di bambini, salvandoli dalle mammane assieme alle loro madri; nella seconda invece si trasforma in angelo della morte, spietata applicatrice della “politica del figlio unico” della Cina popolare, prima di arrivare al pentimento e al parziale riscatto.

Le rane, uscito nel 2009 e finalmente pubblicato anche in Italia da Einaudi (traduzione di Patrizia Liberati, cura di Maria Rita Masci), abbraccia più di cinquant’anni di storia cinese, ed è ambientato nei villaggi rurali della zona a nordest di Gaomi (provincia dello Shadong), dove Mo Yan è nato nel 1955. “Wa”, il suono del titolo originale, significa “rana” ma anche “neonato: non a caso, secondo i cinesi, il gracidio delle rane assomiglia ai vagiti di un bambino. E Girino è anche il nomignolo della voce narrante, nipote della protagonista, che nella finzione di uno scambio epistolare con un conoscente giapponese racconta la vita della zia.

Secondo Confucio tre sono le trasgressioni alla pietà filiale, e la più grave è la mancanza di un discendente maschio, che adempia ai riti funebri e bruci gli incensi per i genitori. Le femmine al contrario sono “acqua versata”, destinate a far parte della famiglia del marito. Quella del figlio maschio dunque era, e in parte rimane, l’ossessione di tutte le famiglie cinesi: da essa dipende l’onore dei padri e il prestigio delle madri. Certo tutto sembra cambiare all’inizio degli anni ‘70, quando il governo intraprende una ferrea politica di pianificazione familiare: milioni di persone vengono sterilizzate, mentre donne incinte del secondo figlio vengono braccate come animali da unità speciali, che le costringono ad abortire anche dopo il settimo mese. Tante tentano di fuggire, molte muoiono.

A guidare una di queste unità di pianificazione è proprio la protagonista: ideologicamente intransigente e di “ottima origine familiare” (è figlia di un eroe della resistenza contro i giapponesi), non mette mai in discussione gli ordini, anche se è dotata di una forte personalità e di feroce determinazione. Non importa che anche lei, durante la Rivoluzione culturale, sia stata costretta all’autocritica e alla pubblica umiliazione: il suo cuore (Xin in cinese, proprio come il suo nome) “rimane rosso” e la sua persona apparterrà sempre al Partito, così come il suo fantasma dopo la morte. Mao aveva detto che i bambini erano la ricchezza del Paese, poi però i suoi successori hanno stabilito che il primo pericolo è il sovrappopolamento: Wan Xin esegue le direttive, costi quel che costi, fino a mettersi contro il suo stesso sangue. La prima moglie di Girino morirà infatti sotto i suoi ferri. Una figura tragica che, dopo una vita spesa prima ad aiutare la maternità e poi a contrastarla spietatamente, passerà la vecchiaia a costruire con il marito vasaio statuine a cui dà i nomi e le fattezze dei bimbi che non ha mai fatto nascere. Il delitto e poi l’espiazione, nella speranza che in questo modo gli spiriti possano reincarnarsi in nuove nascite e trovare finalmente pace.

Mo Yan (莫言) in mandarino significa “non parlare”: firmandosi così, Guan Moye - questo il vero nome dello scrittore - vuole ricordare un ammonimento di suo padre, nel terrore che una delazione potesse in qualsiasi momento arrivare alle Guardie rosse. Quello che il bambino tacque l’adulto oggi lo scrive in opere che mantengono una forza espressiva e una crudezza alla quale in Occidente oggi siamo forse meno abituati. Con il suo “realismo allucinatorio, che fonde racconti popolari, storia e contemporaneità” (dalla motivazione del Nobel per la letteratura che gli è stato conferito nel 2012), Yan tratta un aspetto fondamentale della recente storia cinese, affrontando anche problemi ancora scottanti come quello dei bambini non registrati nelle anagrafi e dei moderni “centri per la maternità sostitutiva”, controllati spesso dalle organizzazioni criminali.

Protagoniste sono sempre le donne, sul cui corpo continua ancora oggi a svolgersi la battaglia tra la vecchia cultura patriarcale e confuciana e i miti dell’ingegneria sociale comunista. Un dramma su cui lo scrittore, proprio come il passivo Girino, non prende ufficialmente posizione: "Ragionando secondo lo Stato, la pianificazione delle nascite è corretta – ha detto infatti in un’intervista rilasciata nel 2009 – Dal punto di vista delle donne è sbagliata... La mia protagonista, come dottoressa, non sa trovare una sua posizione. E come scrittore, neanche io". L’apparente adesione al punto di vista dei protagonisti nulla toglie però al dramma: lo evidenzia anzi, mettendo in luce le influenze culturali e ideologiche che ne stanno alla base, in un modo che può riecheggiare la tecnica del nostro Giovanni Verga.

Per inciso pare che, dopo quarant’anni di applicazione, dal 2015 la Cina abbandonerà la politica del figlio unico; e non è forse un caso che la pubblicazione del libro nel nostro Paese sia patrocinata dalla State Council Information Office della Repubblica popolare Cinese e che lo scrittore – a volte messo in contrapposizione con l’altro Nobel cinese Gao Xingjian, dissidente in Francia, per le sue posizioni apparentemente vicine al regime – abbia potuto trattare dell’argomento con una libertà fino ad ora sconosciuta.

Daniele Mont D’Arpizio

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