SOCIETÀ
Svuotare gli arsenali, accendere l’aspirapolvere
Il silo di lancio di una piattaforma russa per missili balistici intercontinentali nucleari vicino a Kartaly, nella regione di Chelyabinsky. Foto: Reuters/Str
Fornire di energia elettrica una metropoli come Seattle per 767 anni o, se preferite, gli Stati Uniti per due anni o il mondo intero per quattro mesi. Energia “nuova” da centrali nucleari americane, alimentate però da combustibile proveniente dallo smantellamento delle testate atomiche dell’ex Unione Sovietica. Una produzione equivalente a quasi tre miliardi di tonnellate di carbone e superiore a dieci miliardi di barili di petrolio: questo è il quantitativo di elettricità entrata nelle case degli americani dal 1993 ad oggi, grazie a un vantaggioso (soprattutto per gli Stati Uniti) accordo bilaterale tra l’amministrazione Bush senior e l’allora presidente russo Boris Eltsin.
Megatons for megawatt, è il nome del programma che “ha permesso di convertire 19.008 testate nucleari - si legge nel sito dell’Usec, la società che gestisce la riconversione per il governo americano - aumentando in modo significativo la sicurezza mondiale attraverso la riduzione dell’arsenale nucleare”.
Nei primi anni Novanta, la preoccupazione principale degli Stati Uniti e in particolar modo del presidente George Bush era proprio il timore che, in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, parti dell’arsenale nucleare potessero finire in mani sbagliate: stati deboli e inaffidabili o addirittura gruppi terroristici. Ecco allora una exit strategy dalla guerra fredda estremamente vantaggiosa: legare lo smantellamento delle testate al rifornimento delle centrali americane attraverso il processo di depauperamento dell’uranio arricchito. Un affare da otto miliardi di dollari nell’arco di 20 anni per le casse della Federazione Russa che ha garantito oltre il 10% della produzione totale di energia elettrica degli Stati Uniti, ben oltre la quota di elettricità proveniente da fonti rinnovabili come l’eolico, solare e biocarburanti.
L’ultimo viaggio di uranio riconvertito (via nave dal Baltico fino al porto di Baltimora) è partito poche settimane fa, ma la quantità di materiale stoccato garantirà elettricità almeno fino al 2020. L’industria americana si prepara a un improvviso calo dell’offerta di uranio, anche se in teoria gli accordi di disarmo del 2010 potrebbero portare a un nuovo accordo bilaterale: l’ultimo Strategic Arms Reduction Treaty (Start) tra Russia e Usa prevede una riduzione di armi atomiche dalle attuali 2.000 testate a 1.550. Un affare per l’industria del nucleare civile americana ma anche per la sete di energia delle metropoli statunitensi. “Megatons for megawatt - spiega al New York Times Bruce Blair, uno dei fondatori dell’associazione per il disarmo nucleare, Global zero - è stato l’apice della collaborazione anti-nucleare tra Russia e Stati Uniti e il suo vuoto deve essere colmato da un nuovo accordo che vada oltre alla fine della guerra fredda”.
In realtà, in un momento in cui le relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Russia sono al punto più basso degli ultimi 20 anni, un rinnovo del programma è improbabile. Le divergenze sui diritti umani, sulla Siria o il caso Snowden (l’analista americano che ha rivelato il funzionamento della rete mondiale di intercettazioni costruita dalla Nsa ha trovato rifugio provvisorio a Mosca) sono solo alcuni dei punti di frizione tra i due paesi. Se nel 1993 l’economia russa era in caduta libera, oggi l’ex superpotenza si è rimessa in piedi grazie alle esportazioni di petrolio e gas naturale e vuole tornare a giocare un ruolo sulla scena mondiale. Tra l’altro, un cliente migliore degli Stati Uniti potrebbe essere la Cina: con 17 reattori nucleari in funzione e altri 29 in costruzione il suo bisogno di combustibile per le centrali è in rapida crescita.
Mattia Sopelsa