SOCIETÀ

Vanity Publishing: editoria in proprio o editoria a perdere?

Nel diciannovesimo secolo e fino agli inizi del ventesimo era prassi comune pagare i costi di pubblicazione dei propri libri per un autore in grado di affrontarne le spese. Con un duplice beneficio: un maggior controllo sulla distribuzione delle proprie opere, e dall’altra la possibilità di aumentare i profitti. Lungo questa linea, numerosi furono gli autori destinati a divenire famosi, come Burroughs, Shaw, Poe, Kipling, Whitman, che iniziarono la loro carriera pubblicando a pagamento le loro opere. In Inghilterra Lewis Carroll pagò in proprio le spese di pubblicazione di Alice nel paese delle meraviglie, e in Francia Marcel Proust ricorse all'istituto dell'Édition à compte d'auteur anche quando era già divenuto famoso, perché non sopportava alcuna ingerenza da parte dell'editore. Nel 1911 Umberto Saba pubblicò a proprie spese il suo primo libro, Poesie, e il suo concittadino Italo Svevo fece lo stesso per i suoi due primi romanzi, Una vita e Senilità; così come, in tempi più recenti, Alberto Moravia con Gli indifferenti, e Pier Paolo Pasolini per Ragazzi di Vita.

Ma è solo da qualche anno che la pubblicazione in proprio è esplosa come fenomeno commerciale di una certa rilevanza, grazie a piattaforme on line che offrono servizio di pubblicazione e permettono di vendere i propri libri sui principali canali di vendita al dettaglio. Su Il Fatto quotidiano del 14 gennaio, Silvia Truzzi nel suo articolo Vanity Press: Pubblico dunque sono puntualizzava che nel 2011 ilmiolibro.it, un servizio del Gruppo L'Espresso per l'autopubblicazione di manoscritti, ha organizzato un concorso al quale hanno partecipato ben 2.600 romanzi, selezionati dalla Scuola Holden, fondata da Alessandro Baricco nel 1994 per insegnare l’arte e l’artigianato della scrittura. Sul versante della distribuzione, Lulu.com, colosso mondiale del self-publishing, presente in versione italiana dal 2006, ha in catalogo oltre un milione di autori in tutto il mondo per oltre 20.000 titoli prodotti. Tre metri sopra il cielo, di Federico Moccia, è stato fotocopiato e scambiato sottobanco per anni nei licei romani prima di divenire un best-seller - seppur rivolto ad un target particolare di lettori, gli adolescenti - grazie a questo genere di editoria fai-da-te.

Certo pubblicare e distribuire, effettivamente o potenzialmente, è una cosa; avere davvero successo un’altra: in questo non ci sono differenze fra gli autori che si auto-pubblicano e quelli pubblicati da una casa editrice; se non, forse, il filtro del giudizio degli editori. Inevitabilmente, pochi delle decine di migliaia di titoli pubblicati con queste modalità sulle piattaforme più note vanno oltre la cerchia degli amici e dei conoscenti dell’autore, ma anche nel passato e con un distribuzione tradizionale non tutti gli scrittori che se ne valsero ebbero successo. È il caso di Mark Twain che perse decine di migliaia di dollari dell’epoca in una macchina per la composizione tipografica mai completata nella sua casa editrice, che andò in bancarotta. A seguito di questo fallimento Twain non fu nemmeno in grado di sfruttare i suoi diritti d'autore: alcune delle sue opere furono copiate prima che avesse la possibilità di pubblicarle. Famoso è il suo discorso sul plagio nel quale pronunciò la celebre frase “Ho imparato una cosa: che una certa dose di orgoglio si accompagna sempre a un un po’ di cervello, e che questo orgoglio impedisce all'uomo di rubare deliberatamente le idee degli altri. Questo è ciò che un po’ di cervello farà fare a un uomo – e  i miei ammiratori mi hanno detto spesso che di cervello ne ho all’incirca una cesta, sebbene fossero piuttosto riservati sulle dimensioni della cesta in questione”

In merito all’origine del termine Vanity Publishing, il britannico Johnathon Clifford sostiene di averlo coniato lui stesso nel  1959, quando due editori americani iniziarono a pubblicizzare in tutto il Regno Unito i loro servizi di pubblicazione di singole poesie in antologie - chiedendo 9 sterline l’uno e 12 l’altro - a giovani poeti sconosciuti. Tuttavia, il termine sembra risalire – almeno negli Stati Uniti – a una sentenza del 1941 emessa da un giudice della Corte Distrettuale di New York ai danni di un editore italiano con sede negli Usa.

Dal 1991 Clifford – a sua volta un editore e ormai riconosciuto come autorità in materia - si occupa costantemente di indagare su queste forme di editoria ben poco trasparenti tramite una campagna di informazione condotta sul suo sito Vanity Publishing che mira a fare chiarezza, quanto meno cercando di capire spinte e controspinte in gioco nei modelli di business proposti da vari soggetti economici di dubbia serietà. Il British Advertising Standards Authority Advice Note, l’ente britannico che verifica la conformità della pubblicità agli standard dell'industria della comunicazione, definisce come Vanity Publishing chiunque chieda un corrispettivo economico ad un cliente per pubblicare un libro, o offra la possibilità di includere racconti, poesie o altre opere artistiche o letterarie in antologie in cambio dell’impegno dell’autore di acquistarne copia”. Molte di queste società generano non poca confusione nel mercato editoriale usando ambiguità terminologiche quali definirsi Joint venture publishing, Co-Operative publishing, Subsidy publishing, Shared responsibility publishing, o talvolta anche Self-publishing, ovvero edizioni congiunte, cooperative, co-finanziate, a responsabilità condivisa e in autopubblicazione. Nel 2009 fece molto scalpore l’editore Harlequin Enterprises che - a causa della crisi del settore editoriale - annunciò la creazione di Harlequin Horizons, una filiazione di tipo Vanity Press.

I francesi usano la definizione di Édition à compte d'auteur, simile a quella italiana di “editoria a pagamento” e meno dispregiativa rispetto all’accezione inglese, che sottolinea fortemente il carattere di “vanità” riconducibile alla mancanza di un filtro editoriale sul valore della pubblicazione e a quei casi in cui il testo, in particolare saggio o monografia, valorizza luoghi o produzioni letterarie sponsorizzati da enti pubblici o società private che sostengono l’autore nelle spese di pubblicazione. Miriam Bendìa, nel suo Editori a perdere - Viaggio di una giovane scrittrice tra editori a pagamento e non, che contiene anche il Manuale per non farsi pubblicare di Antonio Barocci, denunciano questo mondo sommerso dopo aver analizzato il fenomeno proprio dal punto di vista delle offerte poco chiare e truffaldine. 

L’ironico articolo A vostre spese, a vostro rischio apparso qualche tempo fa sul sito Treccani.it riprende il concetto di APS, Autore a Proprie Spese, apparso per la prima volta nel 1988 nel romanzo di Umberto Eco Il pendolo di Foucault e ormai d’uso corrente nella lingua italiana. Nel romanzo “la Manuzio è una di quelle imprese che nei paesi anglosassoni si chiamano “vanity press”. Fatturato altissimo, spese di gestione nulle. […] Il sistema Manuzio è molto semplice. Poche inserzioni sui quotidiani locali, le riviste di categoria, le pubblicazioni letterarie di provincia, specie quelle che durano pochi numeri. Spazi pubblicitari di media grandezza, con foto dell’autore e poche righe incisive…” Editori insomma che, oltre alla normale attività imprenditoriale, pubblicano anche aspiranti scrittori facendosi pagare, ingannandoli sul loro valore e creando false aspettative: “Consuntivo: l’autore ha pagato generosamente i costi di produzione di 2000 copie, la Manuzio ne ha stampate 1000 e rilegate 850, di cui 500 sono state pagate una seconda volta. Una cinquantina di autori all’anno, e la Manuzio chiude sempre in forte attivo”. 

Ma se l’editore Manuzio ne il Pendolo di Focault è una finzione, ritroviamo invece sul Time del 22 dicembre 1941 la notizia di cronaca che riporta il caso dell’editore italiano Carlo M. Flumiani, con sede in Manhattan, condannato a 18 mesi di carcere oltre a una multa di 2.500 dollari per frode ai danni di autori ingenui. La sentenza del 1941 parla di un commercio particolarmente redditizio noto come “vanity publishing”, attività che l’editore italiano conduceva dal 1935. Books: Literary Rotolactor è il curioso titoletto usato dal Time all’epoca: si noti che il Rotolactor era un sistema di mungitura meccanica “a giostra” nato negli Stati Uniti nel 1939 per la produzione del latte. Lo stesso periodo in cui Ernest Vincent Wright non riusciva a trovare un editore che pubblicasse la sua opera oggi più famosa, il romanzo Gadsby, perché scritto - in modo inusuale - interamente in lipogramma, un metodo noto anche come scrittura vincolata. Per scrivere il romanzo, la più lunga opera di narrativa – ben 50.000 parole - scritta senza una vocale (la “e”), si dice che l’autore - per non cadere in tentazione – avesse staccato il tasto della lettera dalla sua macchina per scrivere. Alla fine Wright scelse di pubblicare l’opera tramite una Vanity Press, ma - ironia della sorte - morì a 66 anni il giorno stesso in cui il libro venne dato alle stampe. In questo caso l’editoria a pagamento era servita a qualcosa di più, anche se tardi, che non ai soli bilanci dell’editore.

Antonella De Robbio

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