CULTURA

L'esilio e la patria: un viaggio nella nostalgia

Pochi sanno che la nostalgia porta in realtà un nome svizzero, inventato da un medico nel 1678 per descrivere il sentimento di mancanza del proprio paese di cui soffrivano i mercenari elvetici di Luigi XIV al punto di morirne o disertare. Lo racconta Barbara Cassin in La nostalgia. Quando dunque si è a casa? (Moretti & Vitali 2015), breve compendio di tutto quanto è nostalgia, descritta attraverso l’analisi di figure (mitiche e reali) della letteratura come Ulisse, Enea e Hannah Arendt. 

Un percorso tripartito, quello tracciato della Cassin, così come Rebecca e Leon Grinberg già dividevano in tre fasi (dall’allontanamento dalla patria alla conquista di una nuova dimensione) l’evoluzione dell’esule nel loro fondamentale Psicoanalisi dell’emigrazione e dell’esilio, in cui studiavano anche le relazioni tra linguaggio ed emigrazione, e come ancora tre erano i passaggi che William Boelhower rinveniva nelle autobiografie degli immigrati del XX secolo. Tre è il numero perfetto, e la nostalgia – come l’esilio –  è in verità davvero un percorso, la cui destinazione finale, quando va bene, può possedere una luminosità dolorosa. Il volume ci guida nelle varie tappe, infilando i personaggi esattamente nell’ordine logico di questo percorso: dall’anelito alla terra madre lasciata alle spalle, al ritrovamento di una nuova patria, all’adesione a una patria intima, eterna e intangibile – la lingua – a cui aggrapparsi. Lingua, patria ed esilio sono infatti i temi attorno a cui la nostalgia si annoda più strettamente e diventano anche il filo conduttore delle esplorazioni della Cassin. 

Ecco quindi Ulisse, l’eroe dell’eterno ritorno, con cui scopriamo subito come la nostalgia sia inaspettatamente bifronte, desiderio del passato e del futuro insieme. Di Ulisse tutti ricordano il ritorno a Itaca, la patria amata, la casa avita. Da cui però riparte subito per poter conquistare finalmente l’approdo definitivo. Al dolore dato dal desiderio del nostòs, del ritorno si contrappone e si compenetra il desiderio del plané, del vagabondare. Che sia per volere degli dei o per il dantesco “ardore … a divenir del mondo esperto”, non cambia il desiderio di un porto a cui giungere, sempre il porto  successivo, quello che consentirà di (ri)trovare la propria identità. La nostalgia è la mancanza di identità, la sofferenza data dall’incompletezza. E il nome che Ulisse sceglie di fronte al Ciclope (“Chi sei?”, risposta: “Nessuno”) acquista di colpo ben altro significato.

Enea rappresenta il passaggio successivo: si carica la patria sulle spalle (il vecchio padre) e la porta con sé, così come Chateaubriand nel suo esilio diceva di aver portato la Francia con sé insieme alla polvere sui suoi stivali. Per Enea – come per tutti gli esuli – non può esistere mai una seconda Troia, perché “non si tratta di riprodurre l’identico, ma di fabbricare altro”. Ecco perché il suo percorso è costellato da “infelici reincarnazioni di Troia”, episodi che lo spingono sempre oltre. Fino alla fondazione di una nuova patria, che gli è concessa a patto però che cambi lingua, che parli “con un’unica bocca”. L’esilio comporta infatti l’abbandono della lingua materna; per Enea significa passare dal monolinguismo purista dei greci alla politica latina del “monolinguismo con alterità inclusa”. Una formula aperta alla mescolanza di razze, in cui il latino ha valore unificante ma non identitario. Ogni cittadino ha quindi di fatto due lingue e due patrie: quella di natura, del suo luogo di nascita, e l’altra, di diritto, che gli conferisce la civitas. Tanto forte, questa seconda, che l’esilio da Roma è terribile e Ovidio, tra gli Sciti, teme di dimenticare il latino, patria culturale, e percepisce tutta la solitudine dello scrittore in esilio, senza “alcuno che comprenda cosa significhino le mie parole”.

L’esilio di Ovidio prefigura una sostanziale differenza, la non identità tra una lingua e la nazione, lo Stato dove questa si parla. Ecco la terza tappa: la lingua – e non la terra dei padri – diventa la patria, per lui come secoli dopo per Hannah Arendt. Vale anche per lei la celebre metafora brodskiana della lingua come navicella spaziale, autentico microcosmo in cui si rifugia lo scrittore lontano da casa. L’attaccamento alla lingua materna diventa la difesa contro “l’esistenza balbuziente” a cui sono condannati gli emigrati, la lingua materna è connaturata (tanto più per uno scrittore) alla possibilità di inventare; ogni locutore la produce “come energeia e non come ergon, come messa in opera, in atto e in evoluzione”. La lingua come energia vitale e come luogo d’amore. 

Ma in fondo chi dice che la lingua deve essere soltanto una? Lo testimoniano centinaia di scrittori, che migrano da una lingua all’altra: Nabokov raccontava il processo dell’autotraduzione con una immagine plastica e straordinaria, come un tuffo in apnea, un lavorio in immersione da una lingua giù fino a una sorta di Ursprache e poi su alla prossima lingua – una re-invenzione di sé. Lo vivono milioni di esuli che vivono in un mondo popolato da più lingue insieme, e tutte si affastellano contemporaneamente, si sovrappongono e si affiancano. Se l’esule perenne che è Ulisse è a casa ovunque e in nessun luogo, così lo è alla fine il migrante quotidiano che vive concretamente e idealmente in più mondi e universi linguistici. Basterebbe un viaggio veloce in alcuni racconti della Bachmann per sperimentare un’efficace “simulazione di volo”, con tutta la vertigine che una simile commistione comporta.

Ma di una lingua ci si può anche innamorare e la si può sposare, volontariamente, in una sorta di autoesilio cosciente dal proprio mondo pregresso. Ne è un esempio, tra i mille, anche la straordinaria storia d’amore di Jhumpa Lahiri verso l’italiano, raccontata come un romanzo nel suo primo libro scritto direttamente in italiano, In altre parole (Guanda 2015). Madrelingua bengalese, nata a Londra, cresciuta in America, ha sempre parlato e scritto in inglese, ascolta l’italiano per la prima volta in un viaggio a Firenze e capisce che le è stranamente familiare e necessario. Lo studio e le visite da turista non le bastano: si trasferisce a Roma, con tutta la famiglia, e inizia la sua avventura, fatta di slanci, entusiasmo, difficoltà ed estraniamento, perennemente pervasa dalla “distanza impercettibile e infinita del desiderio”.

Chi ha molte lingue ha invero molte patrie. Che sia libero di sceglierle. 

Cristina Gottardi

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