SCIENZA E RICERCA

L'uomo e il suo "tecnodestino"

“Ognuno di noi possiede una zattera che naviga nell’oceano della vita. Al di là dell’immagine romantica, che ci vede in balìa delle correnti, è importante ribadire che scelgo io, proprietario della mia zattera, chi far salire a bordo. Io ne occupo il centro: il baricentro dell’area emersa. Vicino a me, ben assicurati e protetti, trovano posto mia moglie e mio figlio. Poco più in là ritrovo i miei genitori… E coloro che non trovano posto nella zattera? È certo che la loro sorte non mi sta a cuore”. È una simbologia eloquente quella a cui ricorre Paolo Gallina nelle prime pagine del libro L’anima delle macchine (edizioni Dedalo 2015), finalista alla decima edizione del Premio letterario Galileo per la divulgazione scientifica, che aiuta a comprendere il rapporto tra uomo e tecnologia. Già, perché su quella zattera possono trovare posto anche le macchine. Gallina spiega che è l’uomo a decidere, a volte in maniera del tutto arbitraria e irrazionale, chi o cosa tenere sulla zattera. Un esempio su tutti il Tamagotchi, un piccolo robot salito a pieno titolo sulla zattera perché capace di mimare atteggiamenti come la sofferenza, sentimenti affini a quelli che si provano per una persona. 

I sentimenti sembrano accorciare le distanze tra uomo e macchina: perché?

Noi crediamo di essere razionali quando ci avviciniamo a una macchina, in realtà la mente inconsciamente fa dei calcoli che derivano dalle abitudini dovute all’evoluzione. Faccio un esempio: Clifford Nass, sociologo americano, condusse degli esperimenti con due tipologie di computer che ponevano una serie di domande a due gruppi distinti di soggetti, utilizzando modalità espressive differenti. Il primo poneva i quesiti in maniera asettica e andava subito al sodo (“quale è stata la delusione più grande della tua vita?”); il secondo invece si rivolgeva alle persone in modo più amichevole (“questo computer è stato progettato per funzionare a 266 megahertz. Non riesco mai a dimostrare la mia capacità; qual è stata la più grande delusione della tua vita?). Ebbene nel secondo caso, quando il computer è stato mascherato con una sorta di “anima sintetica”, i soggetti hanno interagito più volentieri e hanno risposto con maggiore volontà. E ciò avviene a livello inconscio. Dotare la macchina di caratteristiche umane promuove la rottura delle barriere uomo-macchina.   

Quando ad esempio i robot vengono impiegati in ambito medico, in riabilitazione o in psicologia (nel trattamento dell’ansia o della fobia sociale Ndr), oltre a requisiti tecnici devono possedere anche requisiti “emotivi”. Devono veicolare l’idea di essere in qualche modo degli “amici”, devono innescare sentimenti di protezione e il loro apparire non deve essere minaccioso. 

“Non potremo più fare a meno della realtà virtuale: qualsiasi essere umano è perennemente infelice”. Cosa intende? 

Se noi fossimo pienamente felici avremmo il cervello riempito di dopamina. E se così fosse non avremmo motivo di alzare un dito, dato che il nostro cervello sarebbe già “soddisfatto”. In realtà si parte dal presupposto che il mondo è “inadeguato” per l’uomo, che non lo appaga completamente, e per questa ragione l’uomo cerca di modificarlo, agisce per appagare uno stato mentale che si traduce poi in gratificazione, felicità. Si tratta di un processo dinamico alimentato dall’insoddisfazione. 

La realtà virtuale si innesca in questo meccanismo, introducendo una scorciatoia. Crea cioè mondi fittizi attraverso i quali l’uomo riceve dei surrogati delle stimolazioni che riceverebbe nel mondo reale. Le tecnologie virtuali possono prendere piede perché l’uomo è predisposto a creare mondi fantasiosi per scappare da quello reale.      

Le macchine oggi tendono a sostituire l’uomo in molti compiti. Nella sua opinione ciò determina una “fossilizzazione cognitiva”…

Si tratta di un fenomeno molto diffuso negli ultimi anni, che avrà sviluppi esponenziali. Nel momento in cui l’uomo fa ricorso a una tecnologia per facilitarsi la vita, la mente si disabitua a utilizzare il processo mentale sotteso a quel determinato compito. Molti dei miei studenti hanno difficoltà nel fare calcoli a mente e ciò perché hanno delegato la funzione cognitiva del calcolo a calcolatrici e computer, utilizzando la mente per astrazioni di livello più alto. Per questo parlo di “fossilizzazione cognitiva”: da un lato si assiste a una simbiosi con la macchina che diventa una componente della mente, dall’altro la mente delegando alla macchina alcuni compiti si atrofizza. Un po’ come è avvenuto in altri momenti nel corso della storia: oggi ad esempio nessuno sarebbe più in grado di fiutare la traccia di un animale ferito. 

Nel tirare le somme lei parla di “tecnodestino dell’uomo”. Che significa? 

La mente, per come è stata forgiata dall’evoluzione, è dotata di una curiosità e di un atteggiamento alla creatività che dal mio punto di vista sono inarrestabili. Questo atteggiamento spinge l’uomo a circondarsi di tecnologia non tanto per soddisfare necessità fisiche, ma per appagare le necessità della mente. Credo che questo processo sia inarrestabile, per questo parlo di “tecnodestino”. 

La realtà virtuale, ad esempio, cavalca il nostro istinto alla ricerca della felicità, di un continuo cambiamento rispetto al mondo che ci circonda. Non ci accontentiamo mai di quello che abbiamo e vorremmo avere sempre di più. Dato che siamo abituati a spremere felicità dalla tecnologia, non possiamo più liberarcene, né invertire la rotta.

Nel suo libro affiorano ricordi padovani. In che modo il periodo trascorso all’università di Padova, prima come studente e poi come ricercatore, ha contribuito ai suoi studi sulla robotica? 

Per me è stata fondamentale l’esperienza padovana. Fin da bambino desideravo occuparmi di robotica e disegnavo robot fantascientifici immaginando quali ingranaggi potessero avere al loro interno. All’università di Padova mi sono laureato e ho conseguito il dottorato. Ho incontrato il professor Aldo Rossi che ha visto in me delle potenzialità e mi ha proposto di lavorare nel suo gruppo, guidandomi su questa strada. Senza questa esperienza non sarei arrivato dove sono e, forse, non avrei nemmeno scritto un libro sulla robotica.  

Monica Panetto

 

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012