UNIVERSITÀ E SCUOLA

Salvare gli atenei? Più che il denaro, serve un cambio di mentalità

“Nel mondo accademico oggi si usano alcune parole d’ordine: merito, eccellenza, mercato. Rispecchiano posizioni ideologiche, visioni dell’università che non poggiano su un’analisi concreta. Così si innesca la battaglia: da un lato alcuni editorialisti di matrice bocconiana, che propongono l’idea di università come bene privato, mercatizzato, da alimentare con tasse studentesche elevate; dall’altro certi umanisti, ugualmente ideologici, che reagiscono scandalizzati. È uno dei miti di cui parlo nel mio libro: chi si ispira al mondo americano sembra ignorare che negli Stati Uniti ci sono moltissimi atenei pubblici. E comunque in Europa questo modello “aziendale” riguarda, al massimo, l’uno per cento delle università”.

Marino Regini, sociologo, professore emerito dell’università degli studi di Milano, ha molto a cuore il sistema universitario e la crisi che attraversa in Italia. A questo argomento ha dedicato un volume, Salvare l’università italiana, scritto per Il Mulino insieme a Giliberto Capano e Matteo Turri. Il sottotitolo del libro, Oltre i miti e i tabù, è un invito a superare steccati accademici e intellettuali, intrisi di frasi fatte e piccole guerre fredde, per cercare soluzioni efficaci a problemi che Regini rintraccia in anni lontani.

Professor Regini, nel mondo accademico si batte spesso sul tasto dei finanziamenti inariditi…

Che le risorse manchino è fuor di dubbio. In rapporto al Pil, in Italia siamo ben lontani dalla media Ocse: è da tempo che disinvestiamo sull’università. Ma non possiamo ridurre tutto a una questione di soldi. Abbiamo sbagliato le strategie di base da decenni, fin dal fallimento del disegno di legge Gui negli anni Sessanta. Per dirne una, abbiamo perso l’occasione di creare una rete di istituti di formazione terziaria, diversi dalle università, dove garantire un percorso professionalizzante rivolto in particolare a chi proviene da ambienti disagiati. È un sistema che in altri Paesi, come la Germania, funziona benissimo. Da noi ci sono gli ITS che non sono male, ma contano solo 10.000 iscritti, quindi hanno un impatto marginale.

Un tema cruciale, quello dell’accesso all’università per le fasce deboli.

È noto che l’Italia è negli ultimi posti della graduatoria europea per percentuale di laureati. Quello che impressiona è la scarsa mobilità sociale. Nella fascia d’età 25/44 anni, è laureato il 70% dei figli di laureati. Ma se i genitori hanno la terza media o un titolo inferiore, la percentuale crolla al 9%. Se poi guardiamo ai dati sull’andamento delle immatricolazioni e l’abbandono degli studi, capiamo che è un problema concentrato soprattutto al Sud. La mancanza dei canali professionalizzanti, unita alle poche risorse per il diritto allo studio, produce questo risultato.

L’abbandono dei corsi universitari, come il numero di fuori corso, dipende solo da difficoltà economiche e sociali?

No. L’organizzazione della didattica negli atenei è vecchia. I servizi di supporto, come l’orientamento in entrata e in itinere o gli stage, devono raggiungere i livelli eccellenti che troviamo all’estero. Ma anche i docenti devono rivedere le loro tecniche di insegnamento. Quindi servono poli formativi dove trarre strumenti per rinnovare profondamente i propri metodi. Anche qui non sottovaluto la questione delle risorse: in pochi anni il totale dei docenti universitari è calato di migliaia di unità. Ma i finanziamenti sono solo una parte del problema.

Sembra che gli atenei abbiano spostato l’attenzione sulla ricerca, e la didattica rimanga in ombra…

E si capisce perché. Oggi sui fondi ministeriali la voce relativa alla ricerca pesa moltissimo. Il meccanismo della valutazione è positivo, intendiamoci. Ma perché non incentivare in modo adeguato anche il miglioramento della didattica? Parametri come, ad esempio, la diminuzione degli studenti che abbandonano gli studi, oppure i tempi medi con cui si consegue la laurea, possono diventare dei riferimenti. Certo, bisogna fare attenzione a prevenire abusi: qualcuno potrebbe inventarsi un drastico abbassamento della selettività, e i controlli non sono semplici.

A proposito di criteri con cui il ministero attribuisce i fondi: la convince il metodo del costo standard, la “giusta spesa” calcolata dal Miur in carico ad ogni ateneo per lo studente-tipo in corso, tenendo conto delle specifiche peculiarità?

È sicuramente una buona idea per attribuire una quota di base del finanziamento. Ma è necessario individuare una modalità nuova, ulteriore, per premiare le singole università. Bisogna cambiare mentalità, passando da algoritmi validi per tutti alla negoziazione unilaterale: da un lato il ministero, dall’altro l’ateneo X. Bisogna concordare quale differente profilo istituzionale si vuole per ogni università, e ancorare il “premio” al conseguimento di questi specifici obiettivi. Tra l’altro il modello degli incentivi mirati va bene anche per gli atenei del Sud, che a volte lamentano di essere discriminati. Occorre individuare percorsi ad hoc, come si è fatto in Commissione Ue per le università dell’Est Europa: dal momento che per ora, in generale, non possono competere con quelle occidentali, si sono stanziati fondi che favoriscono collaborazioni tra i due gruppi.

Tra gli ‘under 45’ si laurea il 70% dei figli di laureati ma solo il 9% dei figli di chi ha la terza media o meno Marino Regini

Crisi dell’università, crisi economica: inevitabile che oggi si parli molto di sbocchi occupazionali. C’è chi lo trova un argomento improprio, sostenendo che l’università non è un ufficio di collocamento.

Non è improprio: da quando l’università è di massa, uno dei suoi compiti è preparare al mondo del lavoro. Però non mi sento di dire che i nostri atenei, in genere, non ne siano all’altezza. Non dimentichiamo che il tessuto produttivo italiano è composto da mille piccole aziende, spesso dirette da imprenditori non laureati, che hanno scarsa propensione a valutare i titoli di studio come criterio principale per le assunzioni. Naturalmente fanno eccezione i distretti dove la piccola impresa è a elevato contenuto tecnologico, come in Veneto, in alcune aree del Nord-Ovest e dell’Emilia Romagna: ma la situazione generale è questa, la domanda di laureati è scarsa. Questo non deve scoraggiarci, perché sono convinto che se riusciremo ad aumentare il numero dei laureati, nel medio termine si innescherà un processo inverso e positivo: un’offerta più ricca di competenze creerà più posti di lavoro qualificati.

Dicevamo che la ricerca assorbe sempre più attenzione e risorse. Eppure i nostri ricercatori spesso lasciano l’Italia, e quelli stranieri non vengono qui.

Questa è una contraddizione. Abbiamo università notevoli, ma non sempre attirano studiosi dall’estero. Credo che dipenda anche dalla struttura del nostro sistema universitario. Guardi il Regno Unito: lì i centri di ricerca importanti sono pochissimi, Londra, Oxford, Cambridge… da noi c’è troppa dispersione, mancano dei veri poli di attrazione. E immaginare una collaborazione stretta tra atenei “affini” è auspicabile, ma poco realistico: troppe gelosie, troppa burocrazia per riuscirci. Anche qui, secondo me, la soluzione è differenziare gli obiettivi. Abbiamo tanti atenei grandi, “generalisti”, che hanno settori di punta, ma non possono essere al vertice in tutte le aree di ricerca. Quindi ogni università deve decidere su quali campi puntare.

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