SOCIETÀ

Giulio Maccacaro, scienziato militante

Diverse sono le personalità la cui eredità intellettuale supera di molto la notorietà presso il grande pubblico. Giulio Alfredo Maccacaro è senz’altro una di queste.


Martedì 26 novembre 2024 il suo lascito intellettuale viene ricordato all’Accademia Nazionale dei Lincei, con un convegno dal titolo “Scienza, salute e società. Rileggendo Giulio A. Maccacaro”, organizzato da Chiara Giorgi, Annalisa Rosselli e Paolo Vineis.


Nel corso di una vita piuttosto breve – dalla sua nascita, avvenuta cento anni fa, nel 1924, alla sua morte, causata da un infarto nel gennaio 1977 – Maccacaro, medico e ricercatore in microbiologia, biometria e statistica medica, ha contribuito in modo sostanziale all’avanzamento della medicina in Italia: introducendo la disciplina dell’epidemiologia, battendosi per il riconoscimento del valore sociale della scienza e della medicina, mettendo in luce lo stretto legame tra scienza e potere, tra diseguaglianze socioeconomiche e salute. Nel corso degli anni, contribuì ad animare riviste culturali di spessore come “Sapere”, di cui fu direttore, ed “Epidemiologia e Prevenzione”, che fondò nel 1976. Nel 1972, diede impulso alla nascita dell’associazione “Medicina Democratica”, ancora oggi attiva, il cui scopo principale è “lottare per la salute” di cittadini e lavoratori e metterli a parte dei propri diritti costituzionali in questo ambito.

Durante i suoi anni di studio alla facoltà di medicina dell’università di Pavia, Maccacaro partecipò alla resistenza partigiana contro l’occupazione nazifascista. Dopo la fine della guerra e il conseguimento della laurea, proseguì le attività di ricerca in Inghilterra, all’università di Cambridge, sotto la guida del biologo e matematico Ronald Fisher. Negli anni successivi, portò avanti la carriera accademica tra Italia e Inghilterra; divenne direttore dell’Istituto di Statistica Medica e Biometria della Facoltà Medicina dell’Università di Milano nel 1966.

Accanto alla ricerca scientifica, Maccacaro portò avanti per tutta la vita il proprio interesse verso lo sviluppo di una dimensione sociale della scienza, in particolare della scienza medica. Lo scienziato affrontava questo tema alla luce delle sue convinzioni politiche, decisamente vicine alle posizioni sociali e politiche del marxismo.

Al di là delle opinioni personali di ciascuno rispetto a tali ideologie – nella loro declinazione della seconda metà del Novecento – bisogna riconoscere che proprio l’approfondimento di queste riflessioni di natura economica, politica e sociale abbia avuto un grande impatto nel segnare l’evoluzione del pensiero di Maccacaro e l’attualità – ancora una volta, a prescindere dall’appartenenza politica – di molte delle sue affermazioni e dei suoi scritti.

Uno degli argomenti che Maccacaro affrontò con grande lungimiranza rispetto ai suoi colleghi scienziati del tempo è il rapporto della scienza con la società e il posizionamento della prima rispetto alla seconda, alle sue questioni sociali e alla sua dimensione economica.

In une delle innumerevoli testimonianze scritte del pensiero di Maccacaro – in questo caso, un documento di lavoro per l’organizzazione della nuova serie della rivista “Sapere”, del 1972 – il medico si dice equamente distante dal “privilegio” e dal “luddismo” scientifico, affermando: “La scienza è una dimensione della storia: quindi non esiste – almeno dalla rivoluzione industriale in poi – una scienza autonoma dalla storia ma nemmeno una storia autonoma dalla scienza. La rivoluzione borghese è stata anche una rivoluzione scientifica. Infatti la scienza serve oggi alla borghesia per conservare la sua egemonia sul proletariato, per negargli il suo ruolo storico. A sua volta il proletariato conquisterà il potere e lo gestirà nella misura in cui si sarà appropriato anche della scienza. Che non sarà più la stessa in un comando diverso, ma una scienza rifondata. Non si tratta tanto di riappropriarsi cioè di far sì che altri, o tutti, si approprino di quel che c’è, della scienza che c’è, ma di costruire, cominciando col distruggere, delle possibilità alternative di pratica sociale nel campo della scienza” (p.163).

La scienza non è, nella visione di Maccacaro, una realtà ideale, indipendente dai processi socioeconomici, ma un ingranaggio del grande meccanismo che è la società umana, e che come tale contribuisce al dipanarsi della sua storia. Alla luce di questo, non è possibile ignorare gli intrecci che legano la scienza a quel che Maccacaro chiama “egemonia della borghesia sul proletariato”, e che, usando termini meno marxiani, potremmo tradurre in “permanere delle diseguaglianze sociali ed economiche”.

La scienza è una dimensione della storia: quindi non esiste – almeno dalla rivoluzione industriale in poi – una scienza autonoma dalla storia ma nemmeno una storia autonoma dalla scienza. Giulio A. Maccacaro

Questa riflessione, apparentemente così teorica, è però da Maccacaro sempre traslata nella più viva quotidianità. Nel corso della sua vita, l’epidemiologo fu spesso in prima fila nell’indagare e denunciare l’attualizzarsi di questo legame tra scienza medica, diseguaglianze e ingiustizie a carico dei più deboli. Nel corso di una serrata attività di divulgazione scientifica, firmò articoli ed editoriali su alcuni dei principali giornali nazionali in cui denuncia i più vari scandali.

Si poneva a difesa dei pazienti, spesso vittime inconsapevoli degli appetiti economici della grande industria farmaceutica e dei medici, pagati lautamente per somministrare farmaci poco sicuri. Un caso eclatante è quello del talidomide, un farmaco tranquillante con potenzialità antiemetiche il cui nome evoca la tragedia che causò: all’inizio degli anni ’60, la sua somministrazione a moltissime donne nelle prime settimane di gravidanza in Germania e in altri Paesi industrializzati causò malformazioni degli arti in migliaia di bambini, e un numero imprecisato di aborti. Ebbene, diversi anni dopo il ritiro del farmaco e la conclusione della vicenda negli altri Paesi, in Italia si credeva che i “nostri” bambini non fossero stati colpiti.

Fu proprio Giulio Maccacaro a mettere in fila, con dedizione e caparbietà, le mancanze del ministero della sanità (che aveva ordinato di ritirare il farmaco con quasi un anno di ritardo rispetto agli altri Stati) e a scoperchiare, anche nel nostro Paese, una tragedia del tutto evitabile, frutto dell’anteposizione degli interessi economici di pochi alla tutela di un diritto fondamentale come quello alla salute. Nel saggio introduttivo all’edizione italiana di un libro di denuncia sulla tragedia del talidomide, che lo stesso medico selezionò per la pubblicazione nella collana “Medicina e Potere” di Feltrinelli, da lui curata, Maccacaro scriveva: “Sto forse suggerendo che l’intreccio di rapporti tra industria farmaceutica, amministrazione sanitaria e professione medica è, nel nostro paese, tanto fitto da deludere ogni tentativo di guardarlo in trasparenza?” (p. 213). E ancora: “[…] a chi è toccato ogni volta il sacrificio e a chi il vantaggio? Ebbene, qui […] non mi sembra dubbio che la salute pubblica è stata sacrificata al vantaggio del capitale privato, che la pena e l’infermità dell’uomo sono state pagate all’avidità e all’arroganza di un potere: quello dell’industria farmaceutica” (pp. 217-218).

Si occupò estesamente – e con cognizione di causa, essendo da anni dedito (tra i molti interessi) alla medicina del lavoro e alla prevenzione in questo ambito – anche del disastro di Seveso, un’enorme nuvola di diossina calata sulla Brianza nel luglio 1976, che secondo Maccacaro era solo l’ennesimo esempio di una “regola”, quella per cui il modo di produzione capitalista “considera una costante il profitto dell’impresa e una variabile la salute dell’uomo. Che quindi genera continuamente nocività, concentrandola nella fabbrica e riversandola sul territorio”. Maccacaro si batteva contro la visione che riduce l’uomo, e nello specifico il lavoratore, a una “cosa”, a un ingranaggio del grande meccanismo che ha l’obiettivo di accumulare profitto.

Nel lavorare a stretto contatto con i lavoratori delle fabbriche – con i “colletti blu” – Maccacaro puntava a favorire, in questi ultimi, l’appropriazione dei propri diritti, della propria salute, della conoscenza dei rischi a cui sono esposti nel lavorare e dei meccanismi discriminatori a cui sono costretti a sottostare. In un altro articolo di denuncia sul silenzio della politica a seguito dell’evento di Seveso, Maccacaro scrive che “spaventa ammettere che nel nostro Paese si ammettono una nocività e pericolosità del lavoro assolutamente intollerabili e altrove intollerate” (p. 331).

Queste considerazioni di natura politica si accompagnano a un rigoroso impegno in campo medico: il ricercatore, infatti, fu tra i primi esperti a mettere in luce il ruolo centrale dell’esposizione a contaminanti esterni – specialmente in ambito lavorativo, come nelle fabbriche – come primario fattore di rischio per la salute, e la necessità di affiancare alla cosiddetta prevenzione secondaria (anche nota come diagnosi precoce, che si limita a fotografare una situazione in un dato momento) forme di prevenzione primaria, che eliminino alla radice il rischio di esposizione a fattori potenzialmente dannosi per la salute umana. Questo passaggio a una medicina “preventiva” e “di comunità” è per Maccacaro una necessità: una necessaria risposta al modo in cui le malattie stanno cambiando, divenendo “sempre meno fisiogene e sempre più antropiche; multifattoriali nelle cause e molteplici negli effetti” (p. 361).

Infine, un tema caro al ricercatore militante era il ruolo dello scienziato nella società, il suo inevitabile contributo alla vita pubblica. Per questo, riteneva centrale lottare per una riforma concettuale della scienza medica, che avrebbe dovuto prendere il via dalle aule universitarie, dove quella scienza si insegna e dove anche Maccacaro insegnava. In un’intervista pubblicata sul Tempo nel marzo 1977, poco dopo la sua morte, e intitolata “Una facoltà di Medicina capovolta”, il professore denuncia “una formazione del medico all’insegna dell’individualismo professionale, obiettivamente desocializzante; una pratica sanitaria quasi esclusivamente curative nel senso deteriore del silenziamento dei sintomi; una prevenzione inefficace nascosta dietro gli schermi illusori della diagnosi precoce”. A questo modello, Maccacaro contrapponeva un modello in cui pratica e teoria – apprendimento deduttivo e induttivo – vadano di pari passo, così come cura e prevenzione, con l’obiettivo di formare un medico globale, il cui obiettivo è la salute intesa come benessere, più che come temporanea assenza di malattia e come mantenimento in forze dell’essere umano in quanto “lavoratore”, elemento centrale del sistema economico.

Quel che muoveva Maccacaro era la consapevolezza – quanto mai attuale – dell’intima connessione tra le parti che compongono il sistema socioeconomico, e al tempo stesso la consapevolezza del disinteresse verso tale connessione. Lottare per il diritto alla salute è dunque, in quest’ottica, lottare per il miglioramento dell’intero sistema sociale:

“La salute collettiva non è soltanto la somma di benesseri individuali né di individuali riscatti dalla malattia, proprio perché identifica nel privato del benessere e nel malessere del sociale i disvalori che la contraddicono” (p. 466).

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