SOCIETÀ

Il cibo etnico minaccia il made in Italy?

La tradizione culinaria italiana è sicuramente motivo di vanto per tutta la penisola: è risaputo anche all'estero, dove il cibo nostrano è sinonimo di raffinatezza e gusto, che non si gioca col cibo... almeno non quello italiano. Gli utenti dei social, che seguono le pagine internazionali di ricette, sanno che arriverà sempre il momento in cui lo sventurato chef di turno si azzarderà a proporre la rivisitazione delle lasagne o di qualsiasi altro piatto italico, scatenando l'ira dei follower italiani. L'apoteosi di questo atteggiamento campanilistico l'abbiamo vista di recente in un estratto del programma televisivo britannico This morning, durante il quale lo chef Gennaro "Gino" Sheffield D'Acampo ha avuto una reazione esilarante quando la collega di cucina gli ha confessato di essere solita aggiungere i funghi al ragù e mangiare il piatto con l'accompagnamento della salad cream (simile alla maionese).

 

 

Tutto ciò potrebbe far pensare che gli italiani preferiscano restare fossilizzati sulle ricette tradizionali, in realtà siamo molto più aperti di quello che possa sembrare: l'intransigenza sulla tradizione si accompagna ad altre tendenze di gusto più esotiche. Secondo il rapporto Nielsen del maggio 2018, il 56% degli italiani ha dichiarato di apprezzare almeno un tipo di cucina etnica, il 42%, in un periodo di 3 mesi, ha mangiato etnico fuori casa almeno una volta e il 50%, negli ultimi cinque anni, ha aumentato l'utilizzo di ingredienti e condimenti etnici nella preparazione di piatti casalinghi

Effettivamente il gran numero di ristoranti sushi all you can eat e kebabbari, che arricchiscono le nostre città, parla da sé. L'antropologo della contemporaneità, Marino Niola, ci ha spiegato come l'aumento del consumo di cibo etnico sia imputabile, da una parte, all'effetto dell'immigrazione e della globalizzazione e, dall'altra, all'incremento dei nostri spostamenti che ci ha consentito di venire a contatto con altre abitudini alimentari. L'antropologo sostiene: "Questo fa crescere la possibilità di scelte alimentari e mescolanze: stanno nascendo, a partire dai cibi etnici, nuovi modi di reinterpretare le nostre ricette. Si tratta di un fenomeno positivo che è il segno della sprovincializzazione del paese, sia sul piano gastronomico che culturale in generale". Gli stessi locali etnici hanno dovuto rivisitare le ricette tradizionali, adattandole al contesto in cui lavorano: è risaputo che la vasta gamma di cibi asiatici che orbita attorno al sushi abbia poco a che fare con l'originale, così come la "piadina kebab" è palesemente un compromesso tra due mondi gastronomici
 

Un altro fattore che gioca a favore dell'apertura ai cibi diversi è quello salutistico: le Buddha bowls e la quinoa non saranno forse le eredi della famosa dieta mediterranea, ma ormai ci accompagnano spesso durante la pausa pranzo. Lo stesso successo del nipponico sushi, come ci racconta Niola, ha origine dalla sua fama di far dimagrire: "Si tratta di cibo crudo e poco calorico, poi mangiarlo è diventato un modo per distinguersi, un indice di status. Ci fa sentire più internazionali, molto probabilmente fra 20 anni il cibo di moda sarà un altro e si mangerà in modi diversi. In parte queste nuove tendenze culinarie hanno a che fare col fattore salute, soprattutto quando si scelgono certi cibi, a cui a torto o ragione attribuiamo dei poteri salvifici, trasformandoli in superfood".
 

Accanto al gusto si affermano tante ragioni, di salute, di linea soprattutto, perché noi tendiamo a far cortocircuitare la nostra vita e il nostro girovita Marino Niola, antropologo della contemporaneità

La produzione e il consumo del cibo italiano sono destinati a soccombere davanti a questa nuova realtà? Cosa possiamo fare per proteggere la nostra tradizione? Marino Niola non ha dubbi al riguardo: "Il cibo italiano non ha bisogno di protezione, si difende da solo. Ha una tale forza di espansione che in tutto il modo l'italian food è diventato un mito, dovrebbero essere le altre culture a sentirsi minacciate. Se la nostra alimentazione si arricchisce di elementi nuovi è semplicemente un vantaggio, quindi io non mi preoccuperei".


Bisogna infatti ricordare, come raccontato dall'antropologo, che se ripensiamo alla nostra storia della gastronomia, ci rendiamo conto che la nostra cucina attuale è fatta da cibi che vengono da lontano: "All'inizio venivano guardati con sospetto, in seguito sono diventati parte integrante del nostro modo di mangiare: a partire dal pomodoro, il caffè, le melanzane e i peperoni, i legumi, perfino le patate. Quindi, in realtà, in cucina siamo sempre mescolati: anche se spesso non ce ne rendiamo conto". 
 

Spesso compiamo l'errore di pensare alla cucina del nostro territorio come qualcosa di eterno, immutato e immutabile. La realtà, come ci spiega l'esperto, è ben diversa: "Molto probabilmente quello che noi oggi consideriamo cibo italiano fra un secolo sarà diverso, forse alcuni  non lo riconosceranno nemmeno come tale, esattamente come noi non riconosciamo tutta la cucina ottocentesca. Ci sono ovviamente delle linee di tendenza, un nocciolo duro che resiste al cambiamento, però comunque c'è una continua trasformazione. Basti pensare alla cucina italiana che si fa nel nostro paese e la cucina italiana dei migranti, cioè degli italiani che un secolo fa sono andati negli Usa. Sono delle cucine molto diverse che spesso hanno in comune solo il nome, perché, come tutte le realtà, il modo di cucinare cambia rispecchiando le nuove spinte sociali, le nuove domande di salute e di gusto che emergono col tempo".
 

Questo non significa che dobbiamo per forza iniziare a mettere la maionese nel ragù o l'ananas sulla pizza, ma che per creare un grande piatto può essere che torni utile una mano d'aiuto esterna. 
 

La tradizione resta, ma questa è tale perché vive e vive solo se cambia Marino Niola, antropologo della contemporaneità

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