SCIENZA E RICERCA

Nelle Ande preispaniche le donne subivano meno violenza fisica nelle organizzazioni statali

Quali forme di organizzazione politica riducono maggiormente la frequenza dei conflitti violenti all’interno delle società? Con questo interrogativo, da tempo centrale nella storia del pensiero filosofico, si sono di recente confrontati gli antropologi Thomas J. Snyder (UC Davis) ed Elizabeth Arkush (università di Pittsburgh). I due studiosi hanno analizzato un vasto set di dati archeologici relativi a più di 8000 individui che hanno vissuto nella regione delle Ande nei tre millenni precedenti alla colonizzazione spagnola XVI secolo.

I risultati di questo lavoro – pubblicato su PNAS – suggeriscono che le donne che vivevano in sistemi politici più strutturati correvano un rischio minore di subire aggressioni violente rispetto a quelle che abitavano in comunità prive di un governo centralizzato.

È da secoli che nella storia del pensiero politico ci si interroga sulla relazione tra stato civile (inteso come forma di organizzazione sociale basata su un apparato governativo centralizzato e regole comuni) e violenza. Diversi filosofi si sono chiesti, in particolare, se allo “stato di natura” – un’ipotetica condizione in cui non esistono norme e istituzioni che regolano i rapporti all’interno della popolazione – gli esseri umani vivano più pacificamente rispetto allo stato civile.

Semplificando estremamente, possiamo ricordare ad esempio il pensiero di Thomas Hobbes, il quale sosteneva che senza un’autorità politica ben definita vigerebbe la legge del più forte, quella dell’homo homini lupus. Su simili premesse si basava anche il pensiero politico di Immanuel Kant, che riteneva che per mantenere la pace fosse necessaria l’istituzione dello stato civile. Altri pensatori meno “pessimisti”, tra cui John Locke, credevano invece che allo stato di natura gli esseri umani fossero più inclini a collaborare, piuttosto che a scontrarsi.

Più di recente la questione è stata oggetto di diverse ricerche antropologiche, sociologiche ed etnografiche che hanno mostrato come la frequenza, la durata e l’intensità degli scontri violenti differissero molto tra le diverse forme di organizzazione politica del passato. Da questi lavori emerge, ad esempio, che nelle comunità più piccole e non centralizzate queste interazioni ostili fossero più frequenti ma circoscritte, con poche morti, ma costanti nel tempo. Al contrario, nei grandi imperi gli scontri violenti si verificavano soprattutto durante i conflitti bellici su larga scala, per cui il numero di morti era molto alto durante le guerre e più basso nei periodi di pace.

Snyder e Arkush hanno approfondito un fattore che questi studi non sempre ritengono determinante, ovvero il genere. In questo caso hanno scelto di tenere in considerazione solo i dati relativi al sesso biologico degli individui antichi considerati. Inoltre, consapevoli dell’esistenza di tante diverse forme di violenza, molte delle quali però non lasciano tracce rilevabili attraverso l’analisi dei dati bioarcheologici, gli autori si sono concentrati sulla violenza fisica intenzionale, intesa come l’uso della forza agito direttamente su un’altra persona, con l’obiettivo di recarle danno o ucciderla. Aggressioni di questo tipo lasciano tracce ancora visibili sugli scheletri degli esseri umani antichi. Analizzando tali reperti è infatti possibile ricostruire le fratture e i traumi cranici che sono stati con buona probabilità causati da violenze intenzionali.

Gli autori si sono basati sulle informazioni contenute in un vasto database bioarcheologico relativo alle società andine preispaniche che conteneva, in particolare, i resti di 8607 adulti ritrovati in 155 siti archeologici in Perù, Ecuador, Cile e Bolivia. Per ognuno di questi individui era possibile stabilire se fosse stato coinvolto in qualche scontro violento e se il danno subito fosse più probabilmente letale (perimortem) o non letale (antemortem).

Il database conteneva anche le informazioni relative al contesto culturale di riferimento di ogni essere umano antico (acquisite attraverso l’analisi dei siti archeologici in cui erano stati ritrovati. Perciò gli autori hanno potuto classificare per ogni soggetto il tipo di sistema politico in cui viveva: alcuni di essi appartenevano a piccole comunità autonome, prive di strutture di governo ben definite, mentre altri provenivano da contesti statali o imperiali, dove il potere era accentrato.

Snyder e Arkush hanno constatato, innanzitutto, che in tutte le organizzazioni politiche e per entrambi i sessi il numero di individui che riportavano lesioni riconducibili ad attacchi violenti era inferiore alla quantità di quelli che invece non presentavano simili tracce. Dal confronto tra i vari tipi di traumi rilevati sugli scheletri sono emerse le prime differenze di genere: a prescindere dal contesto politico di riferimento, le tracce di violenza non letale (antemortem) erano più frequenti tra gli individui di sesso maschile, rispetto a quelli di sesso femminile. Allo stesso tempo, la quantità di traumi potenzialmente letali (perimortem) era piuttosto scarsa sia tra gli uomini che tra le donne. Le probabilità di subire violenza antemortem erano inoltre leggermente inferiori nelle organizzazioni statali rispetto alle comunità indipendenti per tutti gli individui a prescindere dal sesso.

Invece, il risultato davvero degno di nota riguarda i tassi di violenza perimortem (ovvero quelli potenzialmente letali). Mentre nelle piccole comunità autonome la probabilità di subire queste aggressioni era leggermente inferiore per le donne rispetto agli uomini, nelle organizzazioni statali il rischio di subire violenza era significativamente più basso per le donne. Ciò significa che nelle regioni andine preispaniche vivere negli stati piuttosto che nelle comunità autonome riduceva fortemente il pericolo di subire aggressioni mortali, ma solo per le persone di sesso femminile.

Snyder e Arkush ipotizzano quindi che le strutture sociali e culturali delle formazioni statali proteggessero maggiormente le donne dal rischio di subire violenze fisiche letali rispetto agli uomini. Il motivo, come suggeriscono gli autori, potrebbe essere dovuto al fatto che in queste organizzazioni i conflitti interni venivano risolti attraverso regole prestabilite, senza quindi ricorrere a scontri violenti; perciò, la violenza fisica si verificava più che altro durante i conflitti bellici, che – come suggeriscono alcuni lavori precedenti – coinvolgevano soprattutto gli uomini.

Di conseguenza, concludono gli autori, sembra che il genere sia un fattore degno di considerazione nello studio della relazione tra sistemi politici e violenza interpersonale. Nel caso delle società andine preispaniche, ad esempio, il sesso biologico di un individuo influiva maggiormente sul rischio di subire violenza rispetto al tipo di organizzazione politica in cui viveva. È possibile, quindi, che questo lavoro aggiunga nuove prospettive alla futura ricerca antropologica su violenza, genere e organizzazioni politiche.

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012