SCIENZA E RICERCA
Democrazia cosmopolitica e Covid-19: l'intervista a Daniele Archibugi
Daniele Archibugi è esperto di economia e politica del cambiamento tecnologico e di teoria politica delle relazioni internazionali, è Dirigente del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), dove è stato Direttore dell’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali. Insegna Innovation, Governance and Public Policy all’Università di Londra, Birkbeck College ed è consulente dell’Unione Europa, dell’OCSE, del Consiglio d’Europa. Gli abbiamo posto alcune domande su COVID19 e le sue conseguenze.
La pandemia di Covid19 che abbiamo affrontato e continueremo probabilmente ad affrontare nei mesi a venire ha messo in evidenza, forse mai così efficacemente, i limiti delle singole politiche nazionali, ovvero l’urgenza di agire sincronicamente rispetto a questioni d’interesse mondiale. Di fatto, il momento ha richiesto l’individuazione e l’applicazione di strategie sovrastatali con le quali far fronte agli effetti sociosanitari ed economici dovuti alla pandemia.
Le tue teorie sulla democrazia cosmopolitica, sviluppate sin dalla metà degli anni ’90 ed esposte anche nel testo Cittadini del mondo: verso una democrazia cosmopolitica possono risultare illuminanti in questo senso? Nelle teorie della democrazia cosmopolitica infatti sarebbe necessario che i singoli paesi, a prescindere dalle loro linee di politica interna, si dotassero d’istituzioni internazionali in grado di affrontare democraticamente problemi globali come ambiente, sicurezza, migrazioni, malattie: siamo dunque di fronte a un’occasione per preparare un terreno di applicazione chiaro a linee d’azione e coordinazione su scala globale?
È sotto gli occhi di tutti il fatto che fenomeni quali il cambiamento climatico, le crisi finanziarie, e oggi questa inedita pandemia associata al Covid-19, sono eventi che travolgono le frontiere degli stati. Ognuna di queste crisi mostra una doppia fragilità. La prima fragilità è rappresentata dai rischi associati al lasciare troppa autonomia al settore privato: le azioni decentralizzate delle imprese, guidate dai loro obiettivi economici, spesso confliggono con gli interessi pubblici. La seconda fragilità riguarda, invece, la difficoltà delle politiche pubbliche svolte a livello nazionale a contenere e indirizzare le spinte globali. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: il pianeta è diventato una nave senza timone.
Il Covid-19 ne è un esempio eclatante: a differenza della crisi finanziaria del 2008, si è trattato di un evento esogeno e non endogeno rispetto ai processi di sviluppo economico. Ma proprio perché esogeno e inaspettato, avrebbe dovuto trovare una robusta risposta pubblica. E invece ci siamo trovati in una situazione in cui le possibilità di intervento pubblico sono state limitate, nonostante le enormi risorse finanziarie che tutti i paesi hanno messo in campo per sostenere le attività economiche. Dal punto di vista globale, l’istituzione che aveva le competenze per coordinare le politiche sanitarie, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), aveva una quantità di risorse a disposizione del tutto inadeguata per fronteggiare il problema.
Per me, il Covid-19 è stata una ulteriore dimostrazione che nessuno stato, neppure gli Stati Uniti o la Cina, si possono salvare da soli. Il sovranismo implica dei costi altissimi che nessuno stato, neppure quelli più grandi, si possono permettere. Occorre invece una concertazione assai più stretta delle politiche pubbliche svolte dai singoli governi. E questo richiede, a sua volta, che le scelte globali siano legittimate da un processo democratico ancora da inventare. La democrazia cosmopolitica intende essere un contributo per generare modalità di partecipazione che possano rendere le politiche pubbliche più legittime, e quindi più efficaci.
Secondo te un piano di misure anticontagio unitario avrebbe potuto rappresentare un’alternativa alla dispersione delle politiche anticontagio? Mi riferisco alle differenti scelte dei singoli governi a chiudere in ritardo o a riaprire troppo presto; a mettere in atto restrizioni rigidissime o eccessivamente morbide: insomma avere per il futuro - ora che conosciamo un po' di più il virus - un’unica direzione potrebbe rappresentare una maggiore garanzia di lotta al contagio e di più rapida ripresa?
Covid-19 ha preso tutti di sprovvista e solamente gli imbroglioni possono pensare di avere in mano la ricetta con la soluzione. Nonostante la crisi sia precipitata in pochissime settimane, abbiamo però visto che ci sono stati dei vuoti importanti nel processo decisionale. Quando la crisi è scoppiata, c’è stato un difetto di informazione, che avrebbe potuto aiutare alcuni paesi a reagire meglio. In tutti i paesi, si è dimostrata una incapacità di reazione, ancor più rilevante nel settore pubblico. In Italia, molte imprese sono riuscite a rifornirsi di mascherine prima delle scuole o addirittura degli ospedali. In alcuni paesi quali gli Stati Uniti, il Brasile, la stessa Gran Bretagna, c’è stata una testarda sottovalutazione del problema. Se l’Organizzazione Mondiale della Sanità fosse stata più autorevole e meglio finanziata, avrebbe potuto avere un ruolo più autorevole nel richiedere ai singoli stati di far entrare in vigore standard di sicurezza.
Nel rilancio delle economie nazionali post pandemia pare diffusa la tendenza a distribuire finanziamenti a fondo perduto alle imprese. Manca tuttavia, ancora una volta, una riflessione sulle pesanti diversificazioni sociali dovute al reddito. Le diseguaglianze che la crisi pandemica ha solo confermato ed anzi aggravato hanno dimostrato chiaramente che anche in questo caso a pagare il costo più alto saranno le fasce già prima in difficoltà e le piccole e medie imprese. Un aspetto questo che appunto non vale solo per l’Italia ma a livello internazionale. Se vogliamo un’economia davvero globale non deve anche cambiare il paradigma con cui stabiliamo che questo avvenga? Ovvero: come può definirsi globale un’economia che di fronte alla minima crisi taglia inevitabilmente via dal gioco una fetta importante dell’impresa e della produttività?
Per sostenere i redditi decurtati dalla crisi del Covid-19, i governi hanno a varia misura usato prestiti per aumentare la liquidità e finanziamenti a fondo perduto. Nei mesi del lock-down, queste iniziative sono state necessarie, addirittura forzate, per evitare che ci fosse un effetto domino che distruggesse tutte le attività produttive. Ma una politica economica emergenziale di tale entità avrà ovviamente delle conseguenze di lungo periodo. I prestiti dovranno essere restituiti e i finanziamenti a fondo perduto faranno aumentare il debito pubblico. C’è quindi il rischio, addirittura la certezza, che per almeno un decennio dovremo far fronte agli impegni che abbiamo preso nei pochi mesi di acuta chiusura delle attività economiche.
C’è una soluzione per scongiurare una lunga recessione?
Quella di avviare uno sviluppo economico sostanziale, fondato su investimenti sociali, che aumenti quindi il tasso di occupazione e le entrate fiscali. Per evitare una prolungata stagnazione, ci vorrebbe uno sviluppo economico analogo a quello che si è verificato dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
È possibile? Un così poderoso sviluppo economico è stato auspicato da molti negli ultimi quarant’anni, ma sono riusciti ad ottenerlo solamente pochi paesi asiatici.
Per avviare un sostenuto sviluppo economico sono necessarie diverse condizioni. La prima è la disponibilità di nuove opportunità scientifiche e tecnologiche. La seconda è un intervento pubblico lungimirante. La terza è un quadro di cooperazione internazionale. L’unica condizione che abbiamo per certo è la prima: mai come oggi c’è una disponibilità di invenzioni e innovazioni, dall’intelligenza artificiale alla robotica, dalla diagnostica alle comunicazioni, dalla farmaceutica ai nuovi materiali. Siamo pieni di opportunità non pienamente sfruttate. Si tratta di conoscenze che, se debitamente usate, possono mitigare il cambiamento climatico e migliorare la qualità della vita. Le altre due condizioni bisogna costruirle. Per quanto riguarda l’intervento pubblico, il Covid-19 ha mostrato anche agli scettici quale sia l’importanza di una sanità pubblica, della ricerca scientifica svolta nelle università e negli enti pubblici. La cooperazione internazionale, invece, deve essere rafforzata, anche tramite la creazione di istituzioni democratiche.
Le stesse esigenze si palesano nella ricerca scientifica e nella sua corretta divulgazione. Il Covid19, a causa della sua natura poco conosciuta, è stato contornato da aloni di confusione scientifica abbastanza onerosi per il pubblico e i non esperti. Pensiamo alle differenti terapie perorate come efficaci e poi subito dopo smentite come tali da altre frange di esperti, o alle diverse strategie d’intervento anticontagio: come dicevamo sopra ci sono stati paesi rigidissimi, il nostro per esempio, che hanno persino vietato le passeggiate all’aria aperta e paesi che hanno combattuto il virus con restrizioni meno estreme. La storia insegna che alla lunga situazioni di questo tipo, di caos e disordine comunicativo, possono danneggiare il rapporto tra esperti e non esperti, generando persino sfiducia nell’operato dei primi. Il cosmopolitismo, declinato anche in veste scientifica, può rappresentare un’alternativa?
Nel caso del Covid-19 nessuno aveva la soluzione in tasca. C’è stato un processo di tentativi che hanno portato ad errori da parte di tutti. Bisogna imparare da questi, visto che alcuni paesi, penso alla Corea del Sud, sono riusciti a contenere l’infezione molto meglio di altri.
Ma proprio il Covid-19 solleva una questione assai più generale: in che misura ci possiamo fidare degli esperti quando si tratta di prendere decisioni che riguardano tutti? Bisogna affidarsi ai tecnici oppure ai politici eletti e che, magari, prima di prendere ogni decisione, sbirciano i sondaggi? La questione fu già affrontata da Platone: governo del popolo oppure dei guardiani? Democrazia oppure tecnocrazia?
In questi mesi di emergenza sanitaria, per esempio, tutti i governi si sono attesi che l’OMS fornisse terapie, cure e vaccini. È una richiesta sensata, ma avrebbe richiesto di dare più autorevolezza e risorse all’Organizzazione. E invece abbiamo visto che Donald Trump ha addirittura dichiarato di voler ritirare gli Stati Uniti dall’OMS. Da una parte, l’OMS è stata delegittimata, dall’altra le si è chiesto di svolgere la funzione di Ministero della Salute mondiale senza che avesse le risorse per farlo. È evidente che, se messa nelle condizioni di agire correttamente, l’OMS potrebbe rappresentare un’efficace forma di coordinamento tra le politiche sanitarie nazionali. E abbiamo visto negli ultimi mesi quanto ce ne fosse bisogno.
Affinché il cosmopolitismo democratico non si assesti su una dimensione di mera idealizzazione, quali interventi sarebbero opportuni per dare concreta applicazione a questa visione? Se già Kant aveva teorizzato e sostenuto la necessità di organismi che garantissero agli stati un pacifismo solido e duraturo, andando più nello specifico, come sarebbe possibile coinvolgere attivamente e realmente il singolo cittadino nei processi decisionali e politici che si svolgono a raggio globale?
La democrazia cosmopolitica non ha mai voluto essere solo un ideale: ci siamo – e quando parlo al plurale mi riferisco al gruppo fondatore che include oltre a me David Held, Mary Kaldor, Richard Falk, Ulrich Beck e un numero crescente di giovani studiosi come Garrett Brown, Mathias Koenig-Archibugi, Luis Cabrera, Raffele Marchetti e tanti altri – impegnati per proposte concrete volte a rafforzare le organizzazioni internazionali e crearne di nuove.
“ Ogni volta che ci troviamo ad affrontare nuove sfide risulta chiaro che la risposta nazionalista è di corto respiro.
Ti faccio un esempio dei giorni nostri. Il problema dei rifugiati non si può risolvere a livello nazionale. Occorre, al contrario, gestire i flussi in maniera concertata. Il caso dell’Unione Europea lo mostra chiaramente: come si può pensare di avere una libera circolazione delle persone e, allo stesso tempo, imporre ai rifugiati di restare ad aspettare che la propria pratica sia risolta nel paese di primo approccio? Quando vedo i paesi d’origine dei rifugiati, sono sempre stupito dal constatare che i flussi più elevati provengono proprio da paesi in cui ci sono stati forti conflitti: Siria, Afghanistan, Iraq, Libia. Questi flussi sono spesso scaturiti da guerre combattute dall’Occidente – Afghanistan, Iraq – o che l’Occidente non è riuscito a contenere con mezzi pacifici – Siria, Libia. Se ci troviamo sulle nostre spiagge così tanti rifugiati, lo dobbiamo al fatto che abbiamo bombardato i loro paesi, e che non siamo riusciti ad imporre la pace tempestivamente a nazioni in preda a guerre civili. Il che dimostra che un po’ di cosmopolitismo non avrebbe solo evitato disastri umanitari spaventosi, ma sarebbe stato anche nei nostri interessi.