È il giorno del vaccino anti-Covid-19. Oggi, 27 dicembre 2020 – perlopiù in una giornata dal forte valore simbolico e poco pratico – l’Italia e l’Unione europea danno ufficialmente il via alla campagna vaccinale per cercare di porre un freno alla pandemia derivante dal virus Sars-Cov-2.
Dopo gli Stati Uniti e l’Inghilterra (quest’ultima si è mossa in anticipo rispetto all’UE) e qualche altro Paese il vaccino a mRNA del colosso farmaceutico Pfizer inizia a essere distribuito in gran parte dell’Occidente. A stretto giro dovrebbe arrivare l’approvazione da parte dell’EMA anche del vaccino prodotto da Moderna (si parla dei primi giorni di gennaio 2021).
Buone notizie, quindi? Certamente sì: attorno alla messa in campo di questi due vaccini (e di tutti gli altri che arriveranno all’autorizzazione nel corso del 2021) ci sono gli sforzi – pazzeschi – della scienza di produrre un farmaco in tempi record per cercare di rallentare e poi (si spera) debellare o perlomeno contenere Sars-Cov-2.
Ma c’è qualcosa che – purtroppo – non quadra. Se, da una parte, l’accelerazione impressa dalla ricerca scientifica è positiva, dall’altra, ci si scontra (e non è la prima volta) con le difficoltà – enormi – di accesso ai vaccini, soprattutto da parte dei dimenticati dalla politica mondiale: i Paesi poveri o in via di sviluppo.
Perché, nonostante i numerosi appelli delle fondazioni private e di pochi, troppo pochi, illuminati leader politici o religiosi il vaccino è un affare di pochi, ricchi Stati.
“Sia dato a tutti con al primo posto i deboli e i bisognosi. Non possiamo permetterci di chiuderci nei nazionalismi e nell’individualismo”, diceva Papa Francesco solamente tre giorni fa, il giorno di Natale. “Le scoperte dei vaccini sono luci di speranza se a disposizione di tutti”, aggiungeva il pontefice, appellandosi al fatto che le leggi di mercato e dei brevetti non sovrastino il diritto universale alla salute. L’appello, l’ultimo di altri, è - ça va sans dire – rimasto inascoltato.
Bastano i dati – ancorché non definitivi – per affermarlo: secondo uno studio della Duke University le wealthy nations hanno firmato accordi di acquisto per quasi 4 miliardi di dosi di vaccino con opzioni per arrivare fino a 5. Stando a queste cifre, questi Paesi saranno in grado di vaccinare la loro intera popolazione (e di ripetere il procedimento se necessario) ben prima che miliardi di persone nei Paesi poveri riescano a vedere una singola dose. Secondo il New York Times le nazioni povere o in via di sviluppo - nel corso del 2021 – potrebbero essere in grado di vaccinare al massimo il 20% della popolazione.
In testa a questa poco gloriosa classifica ci sono gli Stati Uniti e il Canada, a seguire il Regno Unito, l’UE, l’Australia, Israele, Giappone e Svizzera. Fanalino di coda? Paesi come il Vietnam, l’India (tra le nazioni più falcidiate dal Covid-19), il Bangladesh e un intero continente – salvo poche eccezioni: l’Africa.
L’Oms ha cercato di contrastare questa disuguaglianza di accesso, anche attraverso l’aiuto della Fondazione Bill Gates, assicurando un miliardo di dosi per 92 paesi poveri. Ma si tratta di cifre ancora troppo basse perché si possano ritenere anche solo accettabili.
Il problema non è da poco, per due motivi non concorrenti.
Primo, una pandemia (globale per definizione) si sconfigge solamente nel momento in cui il vaccino potrà essere inoculato in tutto il mondo, senza eccezioni.
Secondo, la disuguaglianza di accesso alle cure (o al vaccino in questo caso specifico) non farà altro che acuire e peggiorare la disuguaglianza di tipo economico già in essere tra le economie trainanti e quelle povere. Queste ultime continueranno a essere spazzate dalla pandemia, forzandole a spendere le già poche risorse nel tentativo di migliorare la condizione ed esponendole a un maggiore debito internazionale. La ferita rischia di essere insanabile per molti anni a venire con danni ancora incalcolabili: “È chiaro che i paesi in via di sviluppo saranno esclusi, inizialmente – spiega Richard Kozul-Wright, direttore della division on globalization and development strategies delle Nazioni Unite – nonostante la consapevolezza che i vaccini debbano essere considerati come un bene comune, le scorte rimangono sotto il controllo di grandi case farmaceutiche operanti nelle economie di Stato più avanzate”.
Come già detto, gli sforzi di enti non-profit e delle fondazioni non sono bastati al momento: la fondazione Bill Gates ha raccolto solo 5 miliardi di dollari, contro un obiettivo dichiarato che avrebbe dovuto raggiungere fondi per 38 miliardi di dollari.
A livello politico, un gruppo di paesi in via di sviluppo, guidati da India e Sud Africa, cerca accordi per aumentare la scorta di vaccini producendo da solo le dosi, in partnership con le compagnie farmaceutiche detentrici del brevetto. All’Organizzazione mondiale del commercio è arrivata una richiesta formale per allentare o addirittura sospendere le norme sulla proprietà intellettuale, sancite con nel 1995 con l’accordo TRIPS che ha fissato gli standard internazionali per la tutela del copyright e della proprietà intellettuale, brevetti farmaceutici inclusi. La proposta ha ricevuto il veto di Stati Uniti, Unione Europea e Inghilterra, cioè la stragrande maggioranza dei Paesi che hanno già preso accordi commerciali con le aziende produttrici dei vari vaccini.
C’è davvero il tempo di pensare al profitto? Davvero la proprietà intellettuale rimane ancora un diritto intoccabile e sacrosanto, anche di fronte a una pandemia?
Emergenze su larga scala richiedono uno sforzo globale per essere risolte, senza abbandonarsi a facili individualismi e nazionalismi, come diceva giustamente il Papa citato nelle prime righe di questo pezzo.