SOCIETÀ

Le fiction di Roberto Saviano e la sindrome Charles Bronson

Le fiction di Saviano perpetuano, purtroppo, lo schema della Gomorra televisiva. Quanto è potente, incisivo, persino beffardo il messaggio in prima persona del giornalista contro la criminalità organizzata, tanto è ambiguo e rischioso lo standard narrativo delle sue opere per lo schermo, ingessate in modalità di racconto di sicuro successo (anche se la sovrabbondanza potrebbe, prima o poi, portare alla saturazione) che, in nome della suggestione emotiva e del fascino nero dei personaggi, mettono in bilico proprio i valori di cui Saviano si fa portabandiera. Gomorra è basata, in modo evidente anche se non dichiarato, su una contrapposizione bene/male tutta interna al mondo criminale: c’è il camorrista “cattivo” (guarda caso, è anche brutto e viscido) che non rispetta il codice d’onore malavitoso, tradisce i suoi alleati, ammazza chi si fida di lui, ha come obiettivo il puro potere. E c’è il camorrista “buono”, di lineamenti fini, animo tormentato, sensibile e capace di tenerezze, autore di nefandezze atroci ma solo quando i ferrei meccanismi del “sistema” non gli lasciano scelta. L’universo etico di Gomorra esclude qualunque entità esterna al fenomeno camorristico: lo Stato, i poliziotti, sono solo “le guardie” evocate come nemico ben più evanescente e lontano rispetto al clan rivale, e rarissimamente presenti nella narrazione.

La paranza dei bambini, sceneggiato da Saviano (con Maurizio Braucci e il regista Claudio Giovannesi) sulla base del suo romanzo, riprende perfettamente questa linea. Il film (che a Berlino ha vinto proprio il premio per la sceneggiatura) racconta l’ascesa di un gruppo di adolescenti di strada, dai ranghi più bassi al controllo di un intero rione di Napoli (il Sanità), approfittando del vuoto di potere seguito all’arresto del boss locale. Perché, si chiede lo spettatore, dei ragazzini sbandati scelgono di diventare assassini e narcotrafficanti? Perché, ci illustrano le sequenze della Paranza, sono spinti dal desiderio di possedere tutto ciò che i loro coetanei “bene” possono sfoggiare nei selfie da pubblicare in Rete: orologi costosi, griffe sportive di superlusso, regali per i familiari, serate a coca e champagne in locali chic.  Senza dimenticare il sogno di trasformare i propri appartamenti, modesti e scrostati, in regge arredate secondo lo stile kitsch, barocco e pletorico, dei capiclan: con tocchi “di classe” come il violoncello portaliquori che suscita lo stupore ammirato di Nicola, il giovanissimo leader della “paranza”.

Questo, però, è il livello superficiale. La motivazione vera che porta Nicola a diventare un camorrista è ben diversa, e riprende le logiche dell’etica di camorra di cui si diceva. Il ragazzo è furioso perché nel quartiere gli sgherri del boss taglieggiano i negozianti, compresa la sua amatissima madre, titolare di una lavanderia. Nicola, e i commercianti con lui, rimpiangono i bei tempi, quando “regnava” il boss della famiglia rivale, fatto fuori dal clan vincente. Il vecchio boss era uomo d’onore: con lui i commercianti erano protetti, e nessuno pagava il pizzo. Nicola sceglie di agire per riprendere l’eredità del vecchio boss, e riportare nel rione la “giustizia”, che altro non è che impunità e protezione per i cittadini conniventi, ben felici di ossequiare chi li tutela (è significativa la sequenza in cui, ottenuto il potere, Nicola può finalmente aprire la finestra e ricevere, dalla strada, l’omaggio dei commercianti “sudditi” come fosse un capo religioso). La scalata di Nicola, quindi, è la scalata del “giusto”, il camorrista “onesto”, sentimentale (il suo sogno impossibile è di fuggire con la fidanzatina fuori dal “sistema”). Anche qui, nell’unica sequenza in cui appare, lo Stato è raffigurato come un’entità estranea, ostile e perfino sgarbata: la polizia arresta il boss nel mezzo della festa di matrimonio della nipote, che sprona gli invitati a un applauso di scherno verso gli agenti. Con la scusa di far coincidere lo sguardo dello spettatore con quello del popolo della camorra, anche la Paranza sceglie una narrazione ambivalente, incentrata sul giovane boss dal viso dolce e dai sentimenti delicati. Tutto spinge, nel racconto, a favorire un’elaborazione pericolosa del messaggio sottostante: Nicola è spinto a uccidere per la prima volta perché il capo degli spacciatori rifiuta di riconoscere la sua leadership, e quindi non gli lascia scelta. Ma, dopo l’omicidio, le lacrime gli rigano il viso. La pulsione a compiere le scelte decisive (l’ingresso nel clan, l’inizio di una faida) sono determinate dall’“ingiustizia” che colpisce gli adorati familiari: la mamma oppressa dal pizzo, il fratellino colpito dal clan rivale mentre partecipa a una “stesa” (una sparatoria dimostrativa nel quartiere avversario): anche qui un’“iniquità” criminale, perché la punizione del bimbo, colpevole di un peccato veniale (aver giocato a fare il camorrista sparando in aria) è del tutto sproporzionata.

Possiamo soffermarci quanto vogliamo sulle qualità estetiche, sul ritmo perfetto, sulla credibilità dei protagonisti della Paranza: qui il punto non è se sia un film tecnicamente riuscito (lo è molto). Il nodo è se sia lecito interrogarsi sull’impatto che messaggi così forti e ambigui possano esercitare sull’immagine collettiva della mafia, in particolare per spettatori giovanissimi e a rischio. Le fiction di Saviano, per sottostare a stilemi dettati da raffinati professionisti dell’entertainment, voltano le spalle agli stessi presupposti del pensiero etico-politico dello scrittore, ed evocano un sistema di giustizia parallela, da fine che giustifica i mezzi, che ricorda i “buoni cattivi” che nel cinema degli anni Settanta sconfiggevano il male ammazzando chiunque capitasse loro a tiro: dei giustizieri loro malgrado, spinti al di là della legge dalla necessità di riaffermare un’etica basata sulla vendetta e sulla punizione sommaria e definitiva del reo. Una visione che il pubblico era spronato ad abbracciare, perché veniva presentata come il male minore. Ma se la giustizia fai da te è già repulsiva in un vecchio film di Charles Bronson o dell’ispettore Callaghan, trasformare un capocamorra in un eroe negativo è insopportabile. Soprattutto da chi combatte quel mondo in prima persona.

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