SCIENZA E RICERCA

I funghi, questi sconosciuti. Conoscerli per proteggere il mondo naturale

Tanti, diversi, nascosti. I funghi sono presenti in ogni ambiente terrestre: nei boschi, nei giardini, e nei prati di campagne e città, in collina, pianura, montagna e persino lungo le coste marine e le sponde dei fiumi. Impercettibili promotori di biodiversità, i funghi svolgono un ruolo fondamentale nel mantenimento di ecosistemi acquatici e terrestri, permettendo spesso la sopravvivenza stessa delle piante, molte delle quali traggono l’acqua e i nutrimenti presenti nel terreno anche grazie alla cooperazione con un particolare tipo di funghi, quelli micorrizici, che crescono sulle loro radici.

I funghi sono stati riconosciuti come un regno naturale a sé stante rispetto a quello delle piante solo nel 1969 e tutt’oggi ottengono molta meno considerazione da parte della comunità scientifica e dei programmi di conservazione dell’ambiente naturale rispetto a quanta ne venga dedicata agli altri regni naturali, che contengono un maggior numero di “specie carismatiche”. I funghi, al contrario, non impongono la loro presenza né fanno niente per farsi notare: svolgono il loro fondamentale lavoro di conservazione degli habitat “dietro le quinte”.

Esiste un’immensa vastità di specie fungine, solo il 10% delle quali si stima sia stata scoperta e classificata da un punto di vista scientifico. Per cercare di compensare questa lacuna, verso la fine del 2021 è nata un’organizzazione no profit chiamata SPUN – Society for the Protection of Underground Networks (“Società per la protezione delle reti sotterranee”), guidata dalla biologa Toby Kiers. Il progetto è incentrato sullo studio e la conservazione dei funghi, in particolare quelli micorrizici, e si avvale della collaborazione tra ecologisti, micologi ed esperti di modellazione computazionale provenienti da diversi paesi del mondo. Il loro scopo è quello di ottenere una mappatura delle specie fungine presenti nelle diverse aree del pianeta.

Scienziati e scienziate provenienti da diversi paesi del mondo hanno aderito al progetto SPUN. Tra loro, anche alcuni studiosi di botanica generale del Dipartimento di scienze della vita e biologia dei sistemi dell’università di Torino: la professoressa e socia dell’Accademia dei Lincei Paola Bonfante, la professoressa Luisa Lanfranco, e il ricercatore Matteo Chialva. Abbiamo chiesto loro di raccontarci gli obiettivi e le attività di ricerca che animano questo ambizioso progetto.

“Secondo lo State of the World's Plants and Fungi 2020 edito dai Kew Gardens, sul nostro pianeta ci sono attualmente conosciute e identificate 390.000 specie di piante: il 90% di esse interagisce con funghi benefici che chiamiamo “micorrizici” perché vivono per lo più associandosi alle radici delle piante terrestri (il termine micorriza proviene dalle parole greche mykos (“fungo”) e rhiza (“radice”)”, spiega la professoressa Bonfante. “I funghi micorrizici sono distribuiti tra tutti i taxa fungini e sono stimati appartenere ad almeno 50000 specie. Questa straordinaria biodiversità di piante e funghi fa immediatamente capire come le micorrize diano vita a un processo ecologicamente molto importante: queste simbiosi pervadono qualunque ecosistema terrestre, dalle praterie alpine fino agli ambienti desertici.

I funghi micorrizici svolgono funzioni essenziali, che vengono definite “servizi ecosistemici”: proteggono il suolo dall’erosione aggregando le particelle di cui esso è composto e, migliorando la nutrizione minerale delle piante ospiti, soddisfano la loro dieta vegetale, ne amplificano spesso la crescita e hanno un impatto positivo sulla loro salute complessiva. Inoltre, grazie alla simbiosi micorrizica, le piante rispondono meglio a potenziali stress ambientali come la siccità, la presenza di contaminanti nel suolo, come i metalli pesanti, e aumentano la loro resistenza agli organismi patogeni. Allo stesso tempo, le piante sostengono la crescita dei funghi micorrizici fornendo loro i composti del carbonio prodotti tramite la fotosintesi”.

“Strettamente legata a questo flusso di nutrienti, una delle caratteristiche più straordinarie dei funghi micorrizici è quella di creare delle reti miceliari che collegano tra loro piante diverse”, continua la professoressa. “Queste reti, ancora poco studiate, possono mediare lo scambio di nutrienti tra una pianta donatrice e una ricevente e si ritiene, quindi, che svolgano un ruolo importante nel regolare la biodiversità delle comunità vegetali e, più in generale, il funzionamento di interi ecosistemi”.

Come spiega Lanfranco, proprio il concetto di “rete” – inteso allo stesso tempo come la connessione stabilita dai funghi micorrizici nel suolo e quella che intercorre tra gli scienziati all’interno del consorzio – è il presupposto su cui è nata l’associazione SPUN. “Lo scopo principale del progetto è estremamente ambizioso ed è cioè quello di mappare la distribuzione e la diversità a livello globale dei funghi micorrizici e delle reti che essi formano nel suolo, coinvolgendo scienziati e comunità locali”, racconta la professoressa. “Questa conoscenza permetterà di identificare gli ecosistemi sotterranei più fragili che potranno ricevere priorità nelle azioni di conservazione, proteggendo questa ricchezza che giace sotto ai nostri piedi. Grazie a moderne tecniche di modellistica che permettono di predire la distribuzione di questi organismi su scala globale attraverso l’analisi di dati reali già disponibili è stato possibile identificare quali sono gli hot-spot di maggiore biodiversità dei funghi micorrizici. Queste predizioni saranno validate attraverso campionamenti mirati andando a studiare aree per cui non esistono ancora dati ma che, potenzialmente secondo i modelli, ospitano un’alta diversità di specie.

Il nostro gruppo di ricerca è uno dei collaboratori locali del progetto SPUN. Nello scorso agosto abbiamo dato supporto al campionamento di alcune di queste regioni ad alta diversità individuate in Italia, in particolare le Alpi Apuane (Toscana) e le Alpi Graie (Piemonte). Nei prossimi mesi ci occuperemo di estrarre il DNA e sequenziare le comunità di funghi micorrizici presenti in questi campioni attraverso la tecnica del DNA-barcoding. Questi dati contribuiranno alla validazione dei modelli di predizione effettuata all’interno del progetto SPUN”.

“Nonostante il loro ruolo cruciale per gli ecosistemi terrestri i funghi micorrizici, come del resto molti altri microrganismi del suolo, non godono di molta visibilità”, osserva Chialva. “Molti recenti ricerche stanno mettendo in luce come gli organismi che sono oggetto di studio da parte degli scienziati debbano essere organismi carismatici, dotati di caratteristiche ben visibili all’occhio umano e presenti in ambienti facilmente accessibili. Nonostante la loro natura microscopica, molte specie fungine godono di grande notorietà perché forniscono servizi fondamentali per l’uomo, come la fermentazione o la produzione di farmaci, o, al contrario, per il fatto di essere formidabili agenti patogeni o di contaminare le derrate alimentari. Tuttavia, i funghi presenti nel suolo ricevono poca attenzione proprio per il fatto di non essere spesso visibili a occhio nudo, se non quando si parla sensazionalisticamente di tremende epidemie che mettono a repentaglio boschi o colture rivestendo un problema per gli esseri umani. A conferma di ciò, soltanto una piccola parte delle specie di funghi conosciute sono state valutate per essere incluse nelle liste rosse IUCN (International Union for Conservation of Nature) e di questa piccola parte la quasi totalità sono macrofunghi, ovvero quelle specie di cui vediamo i corpi fruttiferi e che spesso sono anche cibo per gli esseri umani. Eppure, i funghi del suolo svolgono funzioni fondamentali nei processi di mineralizzazione e fertilizzazione dei terreni, partendo proprio dalla degradazione della lignina e della cellulosa. Se non ci fossero i funghi lignicoli molto probabilmente vivremmo sommersi dai tronchi degli alberi!

Il fatto che ci siano organismi più studiati di altri, scelti secondo criteri non scientifici, introduce enormi distorsioni, chiamate in gergo tecnico “bias”, nelle ricerche e nei dati che producono gli scienziati, come abbiamo recentemente dimostrato nel caso di piante con fiori vistosi. Ciò si ripercuote inevitabilmente anche nei progetti di ricerca internazionali nei quali i bias tassonomici sono risultati essere molto presenti. Ormai da tempo i micologi sostengono a gran voce che anche i funghi debbano rientrare tra gli organismi target delle policy internazionali per la sostenibilità e la conservazione dell’ambiente. Purtroppo, anche la scienza non è sempre imparziale”.

Eppure, acquisire nuove informazioni sulle varietà di funghi esistenti e comprendere il modo in cui partecipano al mantenimento degli equilibri naturali può dare un contributo fondamentale agli sforzi delle organizzazioni locali, nazionali e internazionali che si occupano di preservare la biodiversità degli habitat naturali.

“Nel loro lavoro The biomass distribution on Earth, Bar-On e colleghi scrivono che le piante coprono l'80% della biomassa presente sul pianeta; ma i funghi, con le loro 12 Gtonnellate di C, sono il gruppo di organismi con maggior biomassa subito dopo i batteri”, racconta la professoressa Bonfante. “Al momento solo 148.000 specie fungine sono identificate, ma si stima che questa sia solo una piccolissima parte di quelle presenti sulla Terra. Alcune stime effettuate dai Kew Gardens nel 2020 suggeriscono che ci siano tra i 2 e i 3 milioni di specie fungine ancora da scoprire. Proprio perché non sappiamo ancora molto su questo regno della vita è importante mettere in atto politiche di protezione conservative. Dati recenti evidenziano come la conservazione degli ecosistemi basata esclusivamente sulle piante non sia sufficiente a salvaguardare anche la diversità presente nel suolo che riveste ruoli fondamentali per l’ecosistema e anche per gli esseri umani. In aggiunta, la conoscenza della biodiversità fungina può essere d’aiuto nelle strategie di pianificazione forestale e nel settore agricolo, poiché tale biodiversità contribuisce a contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici migliorando le performance e la resilienza delle piante in condizioni di stress”.

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