SOCIETÀ

Gender tech. Corpi, esperienze e identità femminili sotto la lente della tecnologia

Dalla pillola anticoncezionale al test di gravidanza, fino alle app per il monitoraggio del ciclo mestruale, le tecnologie di genere influenzano fortemente il modo in cui viene conosciuto e rappresentato il corpo delle donne a livello scientifico, culturale e politico. In Gender tech: Come la tecnologia controlla il corpo delle donne (Editori Laterza) Laura Tripaldi racconta la nascita e l’evoluzione delle principali tecnologie rivolte allo studio della biologia femminile e approfondisce il complesso rapporto tra progresso scientifico, genere e cultura.

“Credo che l’approccio storico allo studio della scienza sia molto importante”, ha raccontato Tripaldi a Il Bo Live. “Spesso tendiamo a considerare il sapere scientifico come un oggetto universale, assoluto e separato dal contesto culturale che lo ha prodotto. L’adozione di una prospettiva storica permette invece di scoprire quanto lo sguardo scientifico sia influenzato da fattori culturali, sociali e politici. Il mio lavoro ha avuto inizio con alcune ricerche che ho svolto sulla pillola anticoncezionale, dettate da un interesse puramente personale. Man mano che approfondivo la storia di questo farmaco basandomi sui molti libri che ne raccontano la nascita e gli sviluppi, mi sono resa conto che la pillola non era l’unica tecnologia a nascondere un passato controverso e a tratti oscuro (segnato da terribili episodi di ingiustizia e violenza coloniale, ndr). Così è nata l’idea di raccogliere queste storie in un libro unico”.

L'intervista completa a Laura Tripaldi. Montaggio di Barbara Paknazar

Tripaldi non nega certo il potenziale emancipativo di tecnologie rivoluzionarie come la pillola anticoncezionale e il test di gravidanza, che hanno permesso alle donne di riappropriarsi dello sguardo scientifico sulla loro sessualità e del controllo della loro salute riproduttiva; d’altra parte, però, Gender tech evidenzia anche gli aspetti più ambigui di queste e altre tecnologie progettate per scrutare dentro i nostri corpi, riflettendo sulla loro capacità di plasmare le identità sessuali contemporanee.

“A un livello più immediato, l’ambiguità è data dalla tendenza a presentare queste tecnologie come strumenti in grado di restituirci la nostra autonomia, tralasciando però di mettere in guardia rispetto agli usi meno desiderabili di questi dispositivi che in mani altrui rischiano di diventare mezzi di controllo e sorveglianza”, spiega Tripaldi. “Un secondo livello della mia riflessione è legato invece al rapporto tra le tecnologie e la natura che esse indagano. L’ambiguità, in questo caso, è dovuta al fatto che noi conosciamo e concepiamo culturalmente i corpi delle donne attraverso la rappresentazione (che è, in un certo senso, una “trasformazione”) che la tecnologia ci restituisce di loro. Ogni strumento tecnologico, in altre parole, proietta uno sguardo sull’oggetto che investiga e, così facendo, costruisce e produce retroattivamente la natura che indaga”.

Per capire quanto la tecnologia riesca a plasmare e a definire il genere femminile e i condizionamenti sociali e culturali che influenzano la nostra percezione a riguardo, basta chiederci: “cos’è una donna?” e renderci conto che le conoscenze biologiche, anatomiche e biochimiche su cui si fonda la nostra risposta sono sempre rese possibili e mediate dagli strumenti tecnologici, che hanno la funzione di trasformare un oggetto o un fenomeno del mondo esterno in un insieme di dati che possono essere analizzati, misurati e ordinati secondo relazioni di causa-effetto.

Questo vale naturalmente per ogni aspetto della realtà che studiamo con metodo scientifico. Lo scopo di Tripaldi era però quello di scoprire cosa accade quando sono i corpi delle donne ad essere sottoposti allo sguardo della tecnologia e approfondire le conseguenze a livello privato, pubblico, politico e culturale di ciò che tale sguardo restituisce. Tutto questo perché le donne, come ricorda l’autrice, sono soggetti politici: la loro natura, la loro salute, le scelte, i diritti e i loro comportamenti sono sempre oggetto di dibattiti e battaglie politiche.

“Il capitolo che ho scritto con più passione e, allo stesso tempo, con più fatica è quello che riguarda la nascita dell’ecografia e la rappresentazione del feto, che siamo abituati a considerare un oggetto naturale, ma di cui in realtà conosciamo solo ciò che ci viene trasmesso attraverso lo sguardo della tecnologia”, racconta Tripaldi. “Perciò ho tracciato la storia dell’iconografia del feto a partire dal Settecento per capire come la sua immagine si sia evoluta nel corso del tempo fino a oggi, diventando il simbolo principale delle battaglie degli antiabortisti”.

Tripaldi esplora anche le implicazioni politiche, sociali ed economiche delle tecnologie digitali, come ad esempio le app di period tracking (finalizzate al monitoraggio del ciclo mestruale), che se da una parte rispondono al desiderio delle donne – specialmente di quelle più giovani – di riappropriarsi della consapevolezza dei propri processi biologici e della gestione della propria salute sessuale e riproduttiva, dall’altra sono capaci di modificare in modo inaspettatamente profondo i loro comportamenti.

“Tutte le tecnologie – non solo quelle digitali – agiscono su di noi”, sottolinea Triapaldi. “Esse ci “trasformano” perché influenzano la nostra percezione di noi stesse, di chi siamo e della nostra natura. Le diffusissime app di period tracking sono particolarmente rilevanti da questo punto di vista; il loro funzionamento ha iniziato a suscitare in me un senso di inquietudine quando mi sono accorta di non sapere fino in fondo che fine facessero i dati raccolti da queste app sulla mia salute e non solo.

Queste app, infatti, non raccolgono informazioni solo sul ciclo mestruale ma spesso ci chiedono di rispondere a domande relative anche allo stato d’animo o ad altri aspetti della nostra vita privata (relativi, ad esempio, all’alimentazione, ndr). Un period tracker si occupa inoltre di fornire consigli mirati. Ad esempio, quando sanno che sta per arrivare la mestruazione, mandano messaggi del tipo “mangia del cioccolato” oppure “fai yoga”. Vengono suggeriti, in altre parole, alcuni comportamenti (ed è in questo senso che le tecnologie digitali ci modificano) spesso basati su pregiudizi culturali di fondo rispetto al modo in cui si dovrebbe sentire o dovrebbe agire una donna a seconda della fase del ciclo in cui si trova”.

La riflessione di Tripaldi non è un tentativo di demonizzare le tecnologie che racconta, né quello di mettere in discussione la loro utilità sul piano sia personale che scientifico ed epistemologico. L’autrice si auspica, piuttosto, di contribuire ad aprire uno spazio di discussione più ampio sulla relazione tra tecnologia, corpo e identità.

“Il dibattito femminista sul rapporto con la tecnologia si divide principalmente in due correnti di pensiero”, spiega Tripaldi. “Da un lato c’è chi considera la natura e il corpo femminile come qualcosa di inviolabile, quasi sacro, e che rifiuta perciò totalmente ogni ingerenza tecnologica. Esiste invece un’altra corrente di femminismo che abbraccia la tecnologia, rifiutando un’idea normativa di natura. Pur non condividendo la prima di queste due posizioni, ritengo personalmente che un approccio eccessivamente aperto e acritico rispetto alla tecnologia sia pericoloso, perché stiamo parlando di strumenti che non sono dotati semplicemente di una “forza salvifica”, ma che possono anche essere manipolati e che, proprio come una spugna, assorbono le strutture di potere esistenti, pregiudizi compresi. Credo perciò che sarebbe auspicabile trovare una via di mezzo basata da un lato sulla conoscenza del funzionamento, delle storie e del potenziale trasformativo di queste tecnologie e dall’altro sulla volontà di immaginare collettivamente lo sviluppo delle tecnologie del futuro”.

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