SOCIETÀ

“I mostri non esistono”. Il libro che racconta i centri per uomini violenti in Italia

Secondo l’Osservatorio nazionale dell’associazione Non una di meno, in Italia si sono verificati 89 femminicidi dall’inizio di quest’anno: donne uccise in quanto donne da uomini di cui spesso si fidavano o di cui si erano fidate in passato: mariti, fidanzati ed ex compagni che si sono sentiti autorizzati a porre fine alle loro vite.

Non si tratta di una serie di tragedie familiari consumate nella sfera privata. La violenza di genere – di cui il femminicidio rappresenta solo l’ultima, estrema, configurazione – costituisce una grave violazione dei diritti umani, nonché un problema pubblico e strutturale, che affonda le radici in una cultura patriarcale che perpetua il rafforzamento degli stereotipi di genere.

Tra le realtà più impegnate a livello nazionale per contrastare questo fenomeno troviamo naturalmente i centri antiviolenza – con i quali si può entrare in contatto chiamando il numero gratuito antiviolenza 1522 o consultando l’elenco reso disponibile dal Dipartimento per le Pari opportunità.

Ma quel cambiamento culturale di cui abbiamo bisogno per contrastare il problema non può avvenire senza coinvolgere attivamente anche gli uomini, che devono imparare ad assumersi la responsabilità dei loro comportamenti violenti e, soprattutto, interromperli. Questo è il compito dei CUAV, i Centri per uomini autori di violenza, che offrono programmi rivolti ai maltrattanti, con l’obiettivo di tutelare la sicurezza e il benessere di donne e bambini.

Stando ai dati raccolti nell’ambito del progetto ViVa, nel 2022 i CUAV attivi in Italia erano 94. Il numero di accessi a questi centri – distribuiti purtroppo in maniera disomogenea sul territorio nazionale – è triplicato dal 2017 al 2022 (anno in cui sono stati registrati 4174 accessi). I CUAV collaborano spesso con i servizi sociali, i centri per la tutela dei minori e i centri antiviolenza con l’obiettivo di garantire una rete antiviolenza sul territorio. Non esiste però al momento un registro nazionale che fornisca una mappatura di questi servizi e un prospetto dei progetti avviati.

Ma come funziona un CUAV? Quali figure professionali lavorano all’interno di queste strutture e che tipo di uomini le frequentano? Incuriosita da queste e altre domande, la giornalista Michela Giachetta ha deciso di intraprendere un’indagine sul campo per approfondire di persona il lavoro svolto in questi centri e raccontarlo nel libro I mostri non esistono. All’origine della violenza di genere (Fandango libri, 2024).

Per un anno l’autrice ha attraversato l’Italia da nord a sud (visitando in particolare i CUAV di Modena, Firenze, Milano, Palermo, Genova, Trento, Napoli e Torino e persino due carceri di Milano e Firenze). Ha conosciuto il personale che coordina e gestisce le attività, assistito in prima persona agli incontri di gruppo e ascoltato le testimonianze degli uomini che partecipano a questi programmi. Il suo obiettivo era quello di “capire, non giustificare”.

L’autrice descrive il funzionamento, le modalità di accesso e gli approcci adottati in ognuno di questi centri. I percorsi proposti comprendono solitamente incontri individuali e di gruppo e possono includere interventi di psicoterapia, socioeducativi o criminologici che mirano a stimolare un’assunzione di responsabilità da parte dei partecipanti, per cercare di prevenire ulteriori aggressioni.

Come sottolinea Giachetta, i CUAV non rappresentano dei luoghi di cura. Per quanto possano fare rete con altri enti sul territorio (tra cui i SERT) non offrono di per sé un servizio sanitario. Gli operatori evitano accuratamente di considerare gli uomini violenti persone “malate”. Questo tipo di trattamento, infatti, rischia di incoraggiare un atteggiamento deresponsabilizzante. La violenza di genere, come viene spiegato nel libro, non è infatti la conseguenza di un disturbo di salute, bensì frutto di una scelta libera e intenzionale.

Per lo stesso motivo, Giachetta insiste sull’importanza di non descrivere gli autori delle violenze come “mostri” o “lupi”: una retorica che consente agli uomini di “nascondersi” dietro a queste categorie irrealistiche a cui possono facilmente convincersi di non appartenere, difendendosi con espressioni del tipo: “per chi mi hai preso” o “io non sono così”. Al contrario, come la giornalista ha modo di constatare in prima persona, gli uomini violenti sono “persone normali”, di ogni età ed estrazione sociale, che spesso conducono vite del tutto ordinarie: vanno al lavoro la mattina, sono sposati, hanno figli, amici, interessi, abitudini e relazioni sociali di ogni genere.

Queste sono le persone che colpiscono maggiormente Giachetta quando assiste agli incontri di gruppo nei CUAV. Uomini che le ricordano amici, conoscenti, padri di famiglia in cui si imbatte ogni giorno al supermercato o all’uscita da scuola. Ma allo stesso tempo uomini che hanno “tirato qualche scappellotto” alla moglie, o l’hanno minacciata con un coltello “per gioco”, oppure controllano il telefono della fidanzata, le impediscono di indossare alcuni vestiti o di utilizzare liberamente i suoi risparmi.

Partendo dal racconto dei suoi incontri con gli uomini violenti e gli operatori dei CUAV, Giacchetta riporta al centro dell’attenzione queste e altre forme di maltrattamento, comprese quelle più “invisibili” che passano attraverso il controllo economico, gli atteggiamenti possessivi e gli abusi verbali e psicologici, che possono essere talmente abituali nelle dinamiche di una coppia da non venire neanche riconosciute come tali da entrambe le parti. D’altronde, come spiega l’autrice, uno dei motivi per cui è così difficile combattere il fenomeno della violenza di genere è dovuto proprio al suo mancato riconoscimento, motivo per cui spesso gli uomini che frequentano i CUAV tendono – almeno inizialmente – a minimizzare i loro comportamenti.

Non è facile per gli operatori e le operatrici che lavorano in questi centri riuscire a fare breccia in queste persone e spingerle, passo dopo passo, ad assumersi la responsabilità delle loro azioni e cogliere l’opportunità di diventare padri, mariti o semplicemente persone migliori.

Quello con gli autori di violenza è un lavoro provante dal punto di vista psicologico che richiede molta preparazione, empatia e spesso anche la capacità di sospendere il giudizio. Le persone che lavorano in queste realtà devono inoltre scontrarsi con alcuni pregiudizi – come la convinzione che gli uomini maltrattanti siano irrecuperabili – e fraintendimenti da parte di chi fatica a comprendere che l’obiettivo di questi programmi non è quello di tutelare o giustificare gli uomini maltrattanti; lo scopo dei CUAV, al contrario, resta sempre quello di ridurre il più possibile il rischio di violenza per donne e bambini.

La principale criticità, come osserva Giachetta, riguarda la difficoltà di valutare con precisione l’efficacia di questi percorsi. Da un lato è impossibile quantificare le violenze evitate in seguito ai percorsi che, secondo gli operatori, sono andati “a buon fine”; dall’altro non si può mai essere del tutto certi che una persona non commetterà più violenza.

D’altro canto, come emerge dalle interviste agli operatori e alle operatrici dei CUAV, questi programmi servono a piantare il seme del cambiamento e in alcuni casi riescono a interrompere delle escalation di violenza che rischiano di mettere seriamente in pericolo la sicurezza di molte donne e bambini. Per questo motivo, l’autrice sottolinea l’importanza di pubblicizzare e finanziare questi centri, migliorare la loro diffusione sul territorio nazionale e il loro coordinamento con i centri antiviolenza.

Ovviamente, tutto ciò non è sufficiente a risolvere il problema se, come sottolinea Giachetta, non ci impegniamo collettivamente per imparare e insegnare a riconoscere la violenza di genere. Questo sforzo deve coinvolgere non solo le donne che la subiscono e gli uomini che la esercitano, ma anche le istituzioni, le forze dell’ordine e tutti gli enti pubblici e privati che operano nell’ambito della salute, dell’educazione, della sicurezza e della tutela dei diritti fondamentali.

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