SOCIETÀ

Inghilterra, i confini chiusi (e infranti) del liberismo

L’Inghilterra, patria del liberismo e madre di tutte le democrazie, ha deciso di chiudere a doppia mandata i suoi confini. Nemmeno il tempo di portare a casa la tanto rincorsa e sudata (e contestata) Brexit, che il premier Boris Johnson ha stilato un elenco di divieti da far alzare più di qualche sopracciglio: visto d’ingresso obbligatorio, contratto di lavoro obbligatorio con soglie di guadagno al di sotto delle quali l’ingresso verrà negato, curriculum ricco di skills e assoluta padronanza della lingua inglese. Con l’obiettivo dichiarato di “riprendere il controllo delle frontiere per la prima volta dopo decenni” ed eliminare “un sistema migratorio distorto dalla libertà di circolazione europea”. Non male come biglietto di saluti a Bruxelles. Quindi stop a tutti coloro che partivano per Londra e dintorni in cerca di fortuna, di un lavoretto qualsiasi e di una lingua di peso da poter spendere al rientro. Ora non più: il curriculum bisognerà costruirselo prima, non durante. Dall’1 gennaio 2021 per ottenere il visto d’ingresso bisognerà superare la soglia dei 70 punti, calcolati sulla base di un modello già in vigore in Australia: 20 per l’avere già in tasca un’offerta di lavoro, 20 per le proprie competenze specifiche, 10 per la lingua, più altri 20 (variabili) che dipenderanno dal settore dove si verrà impiegati (con preferenza per quelli dove di volta in volta si registreranno le maggiori carenze di lavoratori: oggi i più richiesti sarebbero ingegneri, infermieri, insegnanti) e dal salario stimato (che non dovrà essere inferiore a 25.600 sterline, circa 31mila euro). Come dire: mai più immigrati poveri. Solo ottimi professionisti scelti direttamente dalle nostre aziende. Con le nuove norme sull’immigrazione, l’intenzione dichiarata del governo Johnson è anche quella di “aumentare i livelli di occupazione della popolazione residente in Gran Bretagna”.

Confini “stretti” anche per musicisti e sportivi

La stretta non riguarderà soltanto potenziali camerieri e baristi, ma anche i buskers (gli artisti di strada) e i musicisti. Nessuna deroga neanche per chi possiede qualche grammo di notorietà: dal 2021 tutti gli artisti provenienti dall’Unione Europea dovranno sottostare all’obbligo del visto. Ed è assai probabile a questo punto che l’UE ripagherà con la stessa moneta i musicisti britannici. “Profonda delusione” è stata espressa dal direttore generale della Incorporated Society of Musicians, Deborah Annetts, che aveva chiesto per gli artisti la creazione di uno speciale visto della durata di due anni. Nessuna eccezione anche per chi si recherà in Gran Bretagna per manifestazioni sportive. Quella della lingua a dire il vero non è una novità assoluta: già nel 2015, per fare un esempio, un medico italiano era stato sospeso a tempo indeterminato dal Medical Practitioners Tribunal Service perché il suo inglese non era stato giudicato sufficiente a svolgere l’attività, sulla base di una norma che già allora imponeva severi controlli per i professionisti stranieri (anche provenienti dall’Unione Europea) sul livello di conoscenza della lingua. 

Ma la regola che impone di dare preferenza e precedenza agli immigrati “qualificati e talentuosi” sta creando malumori e preoccupazioni non soltanto fuori dai confini del Regno Unito. In una nota pubblicata sul sito web della Conferenza Episcopale di Inghilterra e Galles, il vescovo Patrick Lynch ha sostenuto di essere «preoccupato del fatto che i trafficanti potranno approfittare delle nuove normative per sfruttare i lavoratori agricoli stagionali, vittime di una forma di schiavitù moderna. Le modifiche previste dal governo in materia di immigrazione lasciano inevase molte domande su come questo tipo di lavoratori sarà tutelatoe su quali misure verranno intraprese per evitare che i trafficanti sfruttino le eventuali carenze di manodopera che si verificheranno». L’appello non è da poco, perché il vescovo Lynch è anche presidente del “Gruppo Santa Marta per il Regno Unito”, una sorta di task force formata alcuni anni fa in Vaticano e composta da capi di polizia, vescovi e altre autorità impegnate a vario titolo contro il traffico di esseri umani in vari Paesi. Soltanto pochi anni fa il tono delle dichiarazioni della Chiesa anglicana era assai diverso. Marzo 2015, la Bbc intervistava l’arcivescovo di Westminster e presidente della Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles, cardinale Vincent Nichols. Che dichiarava: «Gli immigrati arrivano in Gran Bretagna per lavorare duro e per dare un contributo molto positivo alla nostra società. Londra senza di loro si fermerebbe». 

Traditi i principi cardine del liberismo

Il tempo dirà chi aveva ragione. Oggi tuttavia l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea si presta a diversi piani di lettura e di considerazioni. Non c’è dubbio che sia stato uno schiaffo per l’Unione Europea, costretta a subire, per la prima volta dalla sua fondazione, l’abbandono di uno stato membro. I motivi sono molti, ma vanno soprattutto cercati nelle zone più rurali dell’isola e tra gli elettori più giovani (industrie dismesse, poco lavoro, poca istruzione, rappresentanza sotto i minimi, immigrazione ritenuta senza controllo), laddove il voto per il “leave” è stato determinante. Bruxelles non soltanto non è riuscita a dare le risposte sperate, ma è stata vista come un ostacolo. Un’Unione, parziale e imperfetta, che non è stata capace di unire, di trovare una sintesi (politica, economica, fiscale) applicabile ai diversi stati. Ma la Brexit (che vuol dire chiudere le frontiere, isolarsi, imporre dazi) arriva anche ad abbattere (e dunque tradire) alcuni dei pilastri del liberismo: il multiculturalismo, la globalizzazione, l’immigrazione, il libero scambio delle merci. Un punto di passaggio e di rottura. Un impasto di nazionalismo e di populismo, per ridare forza alla produzione interna ed evitare così che, ad esempio, la concorrenza venga alterata da prodotti realizzati in Stati che offrono paghe da fame ai lavoratori. Protezione dei confini per proteggere la qualità del lavoro di chi lì dentro abita. 

Scrive Luigi Mazzella, ex giudice della Corte Costituzionale ed ex ministro per la funzione pubblica: "Gran Bretagna e Stati Uniti d’America, patrie delle liberal-democrazie, sono gli unici Paesi ad avere pieno titolo per fare opera di revisione degli eventuali effetti deviati e devianti della dottrina liberale, da loro fin qui applicata per il governo della res publicapossono indicare eventuali correzioni per eliminarne le conseguenze negative, senza rischiare di essere accusati di tradimento dello spirito liberale. E, non a caso, quelle due grandi Nazioni hanno sorpreso il mondo, condannando aspramente il neo-liberismo, accusato, sostanzialmente, di essere giunto ad annullare la libertà di chiunque non rientri nelle oligarchie finanziarie e industriali che spadroneggiano nel Pianeta». Dunque non i princìpi a essere messi in discussione, ma la loro gestione, la loro applicazione. Per inadeguatezza della classe politica, verrebbe da aggiungere. Come spiegava Paola Degani, docente di politiche pubbliche e diritti umani all'università di Padova. «La globalizzazione spesso non governata, per alcune ricadute che sta dimostrando in maniera manifesta, crea tutta una serie di problemi che riguarda poi l’ingovernabilità complessiva di alcuni fenomeni, tra cui l’immigrazione". 

Scenari futuri: Londra paese “offshore”?

Quel modello, così gestito, non funziona più: questo dice la Brexit. E allora si aprono nuovi scenari, come quello descritto in un’approfondita analisi da Sir, l’agenzia d’informazione della Cei, la Conferenza Episcopale Italiana: «Allontanando le merci europee e aprendo la strada alle produzioni di altri continenti più amici, Londra può attrarre imprese abbassando i controlli di tutela e qualità, allentando la fiscalità, accettando flussi meno controllabili. Non a caso si parla di una possibile involuzione inglese a “Paese offshore”, quei rifugi che coprono pratiche e flussi di minor trasparenza. L’Europa teme la concorrenza totale e chiede nell’avvio di trattative un level playing field, ossia un “terreno di gioco” con condizioni paritarie, per evitare che Londra si lanci in una deregulation totale".

Insomma, il futuro del Regno Unito è ancora tutto da stabilire e da decifrare. Che poi, chissà per quanto tempo ancora potremo chiamarlo così. L’uscita dall’Unione Europea ha riacceso la fiamma indipendentista in Scozia (che continua a chiedere un nuovo referendum, sperando così di staccarsi dall’Inghilterra e di rientrare in Europae in Irlanda (che in conseguenza della vittoria dei “leave” vedrà per la prima volta nella sua storia un confine doganale tra Irlanda e Irlanda del Nord). Più sopita (ma queste micce si accendono con facilità) la situazione del GallesIl filosofo Bernard-Henri Lévy la vede così: «Non ho cambiato idea sulla Brexit: è un disastro per il Regno Unito, che corre il rischio di lasciare la Scozia e l'Irlanda del Nord; che accetta l'idea che la Gran Bretagna diventi di nuovo una piccola Inghilterra; e che offre lo spettacolo di un paese in cui, per la prima volta, non è la rana che vuole farsi grande come il bue, ma il leone che, amputandosi, sfuggendo a se stesso, sceglie di diventare una rana». Il premier Boris Johnson (che Lévy definisce “un Churchill trasandato”) per allontanare le spinte indipendentiste promette investimenti sulle infrastrutture (alta velocità e un mega ponte tra Scozia e Irlanda del Nord). Forse anche lui (nonostante il deficit di attenzione recentemente rivelato dalla stampa inglese) sa bene che non basterà. 

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