SCIENZA E RICERCA

L'ecatombe degli uccelli marini in Alaska

A Whittier, lungo le coste dell’Alaska, il 2016 era iniziato con un’ecatombe. John Piatt dell’U.S. Geological Survey si era trovato davanti una di quelle scene surreali, da brivido: oltre 6.500 uccelli marini – tutte urie comuni (Uriae algae) – giacevano spiaggiati in un singolo chilometro di costa. I corpi magri ed emaciati. E quella era solo la punta dell’iceberg. 

Tra l’estate del 2015 e la primavera del 2016, infatti, nelle acque del Pacifico del Nord, sarebbero morte circa 1 milione di urie. Tutte di fame. È quanto affermano gli scienziati dell’U.S. Geological Survey e dell’università di Washington su Plos One. Il colpevole, neanche a dirlo, è il cambiamento climatico: l’aumento delle temperature dell’oceano avrebbe completamente stravolto la rete trofica che vede all’apice questi splendidi uccelli piscivori.

Per John Piatt le urie sono sempre stati animali affascinanti, degni di nota. Questi uccelli marini con la pancia bianca, il dorso e la testa di un nero cioccolato, sono predatori eccezionali che trascorrono l’inverno a caccia di piccoli pesci in mare aperto, immergendosi fino a 180 metri di profondità. Lo stesso Piatt, nel 1985, ne aveva registrato i record. La loro abilità da sommozzatori, poi, eguaglia quella da equilibristi. Le urie sono le regine delle scogliere: nidificano in colonie, su rocce a strapiombo sul mare. Non fanno il nido e covano restando in piedi. Le loro uova sono uniche: sono piriformi, larghe alla base e appuntite in cima, per evitare di rotolare via. Una sorta di “ercolino sempre in piedi”. Non sono però riuscite ad affrontare l’inverno 2015-2016, che è stato per loro il peggiore di sempre.

Per scoprire cosa stesse succedendo alle urie del Pacifico settentrionale, John Piatt e i colleghi dell’università di Washington hanno iniziato a indagare allargando il raggio d’indagine a tutta la costa del Nord America occidentale e coinvolgendo nei sondaggi i centri di recupero e riabilitazione della West Coast, cittadini e birdwatchers. E la risposta alla domanda “sta succedendo ovunque?” è stata “purtroppo sì”. 

Tra l’estate del 2015 e la primavera del 2016, lungo le coste occidentali del Nord America – dall’Alaska alla California – sono state rinvenute circa 62.000 urie morte. Oltre 46.000 solo in Alaska: 1000 volte più del normale. E tutte magrissime. Come se non bastasse, i due terzi delle 62.000 urie erano adulte. Un colpo durissimo per la popolazione riproduttiva. Il dato, già allarmante di per sé, è però solo un parziale: le urie spiaggiate, spinte per caso dalle correnti, sono solo una piccola parte del totale. E quindi secondo le stime di Piatt e colleghi, in meno di un anno nel Pacifico settentrionale sarebbero morte un milione di urie.

Anche il monitoraggio delle colonie riproduttive, portato avanti dal 2015 al 2017, ha dato risultati sconcertanti. Nei tre anni, per ben 22 volte ci sono state colonie che hanno fallito completamente la stagione riproduttiva: neanche un singolo pullo è sopravvissuto.

Piatt – e forse nessun ornitologo finorasi è mai trovato davanti a una tale tragedia. La magnitudo, la durata e l’estensione spaziale di questa ecatombe associata con il fallimento riproduttivo di più colonie e per più anni di fila non hanno precedenti. Ed è inquietante.

Una volta compresa l’entità del danno, bisogna però capirne la causa. E la risposta è arrivata dalle osservazioni e dalle analisi tossicologiche. Nessun veleno, nessuna alga tossica: pura e semplice fame. Un’uria adulta ha bisogno di mangiare ogni giorno la metà del suo peso in pesce. Ed evidentemente di pesce-foraggio non ce n’è stato abbastanza. Ma perché? 

Il gruppo guidato da Piatt è riuscito a trovare la risposta, una di quelle che chiude il cerchio, ma lascia l’amaro in bocca. 

La mortalità di massa delle urie è avvenuta in contemporanea con l’ondata di riscaldamento delle acque marine più potente mai registrata, avvenuta tra il 2014 e il 2016 e durata 711 giorni. Nel Pacifico settentrionale, per le alte temperature e altri eventi meteorologici come El Niño, si era creata in sostanza un’enorme massa di acqua calda, profonda fino a 200 metri e con temperature massime che arrivavano a 6 °C. Un “blob”, come lo hanno definito i ricercatori, che si estendeva per oltre un milione di chilometri quadrati. Un’area pari due volte e mezzo il Texas.

Ebbene un’ondata di caldo così prolungata ha ridotto la quantità e la qualità del fitoplancton, che a sua volta ha ridotto la quantità e la qualità dello zooplancton, cioè del pesce-foraggio consumato dalle urie. La comunità di pesce-foraggio risultava meno biodiversa, con esemplari mediamente più piccoli, meno grassi e meno calorici. Già così, insomma, le urie avrebbero sofferto la fame. Ma c’è di più.

Mentre i pesci alla base della catena alimentare diminuivano di numero e di qualità, il caldo intenso ha aumentato le richieste energetiche di pesci più grossi, altri top-predator competitori delle urie, come merluzzi e rombi. La lotta per la sopravvivenza si è fatta quindi durissima e i due fattori insieme – ridotta quantità e qualità del pesce-foraggio e competizione con altri predatori – avrebbe determinato il crollo della popolazione di urie e l’insuccesso delle stagioni riproduttive in alcune colonie.

Questo episodio rivela per la prima volta l’inizio di un grave stravolgimento nella rete trofica, con risultati allarmanti. “L’entità e la portata di questo fallimento non ha precedenti. L’impatto che il riscaldamento oceanico sostenuto può avere sull’ecosistema marino è enorme: non sappiamo se e quando la popolazione di urie si riprenderà. E alla luce delle previsioni sul riscaldamento globale, è molto probabile che ondate di calore di questo genere diventino sempre più frequenti”. Questo potrebbe essere solo un avvertimento. L’ennesimo che ci dà il clima, prima che sia troppo tardi per agire. Intanto, da maggio 2019, un nuovo “blob” ha preso forma nel Golfo dell’Alaska.

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