SOCIETÀ

Libano: il dramma di Beirut colpisce un Paese già in precario equilibrio

Le macerie del porto di Beirut sono diventate una formidabile lente d’ingrandimento. In quel cratere profondo 43 metri, ormai simbolo del disfacimento del paese dei Cedri, un monumento al contrario che non svetta, ma sprofonda, oggi chiunque può leggere la storia di questa nazione tradita, ferita dagli estremismi, violentata da decenni di scontri tra fazioni, divisioni politiche e religiose, mortificata da una corruzione endemica senza freni e senza limiti. Con la sua capitale che negli anni 60 era chiamata la “Parigi del Medioriente”, lussuoso crocevia finanziario del mondo arabo, attraversata da un fermento culturale ed economico che lasciava immaginare ben altro sviluppo.

Oggi le cartoline da Beirut raccontano sì la distruzione degli ultimi giorni, ma soprattutto la disgregazione sociale, una rabbia che sale dal profondo, un grido di ribellione potente quanto l’esplosione del 4 agosto scorso, che in un frammento di secondo (con quell’irreale velocità di propagazione che non dimenticheremo) ha raso al suolo il porto e interi quartieri. Sull’onda delle proteste di piazza, vibranti, possenti, dopo 6 giorni anche i rappresentanti della politica sono stati spazzati via: il governo di Hassan Diab, sostenuto da Hezbollah (il “Partito di Dio”, un movimento politico-militare sciita nato nel 1982 come forza di resistenza contro l’occupazione israeliana e poi diventato pilastro della politica libanese) è stato costretto alle dimissioni, dopo che diversi ministri avevano deciso di abbandonare l’esecutivo.

Il premier ha dichiarato con enfasi un po’ stonata di “voler combattere al fianco del popolo libanese”, ammettendo che “la tragedia di Beirut è il risultato della corruzione endemica che affligge il Libano” e lanciando generiche accuse verso le forze politiche di avere come “unica preoccupazione il regolamento di conti politici e la distruzione di ciò che resta dello Stato”. «Questo governo ha provato a cambiare le cose», ha dichiarato Diab. «Ora dobbiamo tornare a essere parte del popolo».

Tutti sapevano da anni

Spetterà ora al presidente libanese, Michel Aoun, decidere se formare un governo tecnico o un esecutivo di unità nazionale (non ha ancora convocato le consultazioni). Ma anche la sua credibilità è appesa a un filo. L’agenzia Reuters ha pubblicato un rapporto riservato dei servizi segreti libanesi, inviato al presidente Aoun e al premier Diab il 20 luglio scorso, nel quale si informava della presenza delle 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio conservate nel porto di Beirut. «In caso di esplosione potrebbero distruggere la capitale», è scritto nel rapporto. «Fate il necessario per evitare che accada», era stata la risposta del presidente del Libano. E, a quanto pare, non era la prima volta: funzionari del porto avrebbero avvisato e chiesto istruzioni almeno altre 10 volte da quel lontano settembre 2013, quando la nave mercantile russa Rhosus venne bloccata e sequestrata in porto per alcune irregolarità mai chiarite (qui la ricostruzione della storia della nave, pubblicata dal New York Times).

Storia piena di dubbi e di misteri, di negligenze e di omissioni, di complicità e di corruzioni. Possibile che quel carico così pericoloso (e prezioso: valore stimato attorno al milione di dollari) sia rimasto lì per così tanti anni senza che nessuno venisse mai a reclamarlo? Dov’era diretto? Chi ne aveva la disponibilità? Sembra che il carico fosse di quasi tremila tonnellate, ne mancano oltre 200 alla stima (quanto affidabile?) di quello esploso: venduto a chi? Da chi?

La fame e la rabbia

Il dedalo delle ipotesi è al momento inestricabile. Resta il Libano in ginocchio, Beirut, il suo cratere. In strada si continua a scavare per recuperare i corpi delle vittime (220, ma il numero sarà più alto) e alla ricerca dei dispersi che ancora mancano all’appello. Scrive il Post: «I lavori di pulizia delle case distrutte, la ricerca dei corpi e il sostegno materiale a chi è rimasto senza un tetto sono portati avanti principalmente da cittadini volontari o da organizzazioni non governative, più che dal governo». Le dimissioni dell’esecutivo non basteranno a placare la rabbia dei libanesi, un popolo sconfitto, tradito, smarrito. Ma, soprattutto, che non risolverà le troppe emergenze che, contemporaneamente, il Libano si trova ad affrontare: la crisi umanitaria e alimentare, quella sociale ed economica, quella sanitaria. Una situazione così drammatica da rendere difficile, oggi, immaginare una plausibile via d’uscita. Il problema più urgente è il cibo: il prezzo per nutrirsi, arrivato oltre la portata di gran parte della popolazione libanese.

Il Libano sopravvive importando circa l’80% dei beni consumati, il 60% dei quali transitava per il porto di Beirut, ora inutilizzabile e chissà per quanto ancora. I prezzi sono schizzati alle stelle. E naturalmente c’è chi specula, senza vergogna, senza pietà. Il principale sito di stoccaggio del grano, indispensabile nell’alimentazione dei libanesi, è stato polverizzato dall’esplosione. Le riserve, ha stimato prima di dimettersi il ministro dell’Economia, potrebbero bastare per meno di un mese. Il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (WFP) ha annunciato che invierà 50mila tonnellate di farina di grano per stabilizzare la fornitura di grano del Libano (ma bisognerà capire dove farle arrivare e dove conservarle: il porto non c’è più).

L’Onu ha stanziato 253 milioni di euro per far fronte alle prime necessità: fondi che, almeno nelle intenzioni, dovrebbero arrivare direttamente ai libanesi senza passare per la “mediazione” delle forze politiche (che, nel caso di Hezbollah, coincidono con formazioni militari). Nell’immediato si tratterà di aiuti alimentari e medici, finalizzati anche alla ricostruzione di scuole e ospedali (molti danneggiati, due completamente fuori uso), con un’attenzione particolare ai programmi per limitare la diffusione del Covid-19 (il rischio è che in una situazione come quella attuale la pandemia possa propagarsi con ancor maggiore rapidità). Gli stanziamenti saranno gestiti da agenzie Onu e dalle tante Ong presenti nel paese. «Sia nel breve, sia nel lungo periodo ci sarà una rigorosa sorveglianza», promettono alle Nazioni Unite.

Il Libano sopravvive importando circa l’80% dei beni consumati, il 60% dei quali transitava per il porto di Beirut

Il No agli aiuti da Israele

Un paese in ginocchio che ha bisogno di tutto (secondo le ultime stime occorrerebbero 15 miliardi di dollari per la ricostruzione di Beirut), ma non da chiunque. Beirut ha respinto l’offerta di aiuti umanitari avanzata da Israele, nemico dichiarato. Scrive Rania Hammad sull’agenzia di stampa Nena (Near East New Agency): «L’offerta di aiuti di Tel Aviv non è stata accolta non per intolleranza, ma perché i libanesi sono consapevoli del tentativo di usare Beirut da parte di una potenza regionale (Israele) che al paese ha portato distruzione». Appena pochi giorni prima dell’esplosione del porto, alla fine di luglio, la tensione tra i due paesi era salita nuovamente a livelli altissimi, con il governo libanese che aveva sporto denuncia all’Onu proprio contro Israele, responsabile di “attacchi unilaterali” nella zona meridionale del Libano. L’esercito israeliano aveva “giustificato” l’azione sostenendo di aver respinto un “tentativo di infiltrazione da parte di una squadra di terroristi di Hezbollah nell’area del Monte Dov”.

La catastrofe economica

I problemi del Libano non nascono con il drammatico incidente del porto della settimana scorsa, che comunque li aggraverà in modo esponenziale. La crisi economica e sociale aveva già superato il livello di guardia. Lunedì 9 marzo 2020 il default del Libano era stato formalizzato con l’impossibilità di procedere al pagamento dell’Eurobond da 1,2 miliardi di dollari in scadenza. Non era mai accaduto. Due giorni prima il premier Diab aveva dichiarato: «Il debito è diventato più grande di quanto il Libano possa sostenere ed è impossibile per i libanesi pagare gli interessi. Come possiamo pagare i creditori quando la gente è in strada senza nemmeno i soldi per comprare una pagnotta?». Le altre due scadenze erano previste ad aprile e a giugno, per un totale di circa 2,7 miliardi di dollari di capitale e di oltre 2 miliardi di interessi da pagare per tutte le emissioni. Il debito pubblico del Libano ammonta a circa 92 miliardi di dollari.  Riassume così il Sole 24 Ore nella cronaca di quei giorni: «I conti pubblici versavano da tempo in una situazione grave. E alla fine i nodi sono arrivati al pettine. Il deficit, incontrollabile, aveva infranto la barriera del 10 per cento. Il debito pubblico, il secondo più alto al mondo, ha superato il 170% del Pil. Già nel 2018 il deficit delle partite correnti aveva sfondato il 25% del PIl. La crisi scoppiata in autunno, e le grandi proteste di piazza, avevano spinto le banche a operare forti restrizioni ai prelievi e ai trasferimenti in dollari». Da allora la lira libanese ha perso oltre l’80% del suo valore: un paese fallito, un popolo senza più risorse. Ma non è soltanto una fatalità. Un esempio su tutti: il dissesto energetico. Il Libano ha rifiutato per anni sovvenzioni internazionali per dotarsi di una centrale elettrica che avrebbe garantito al paese l’indipendenza energetica, preferendo acquistarla al bisogno da navi prese a noleggio. La “bolletta” pagata negli ultimi 15 anni (dal 2006 in poi) è di oltre 50 miliardi di dollari.

Il rischio di una nuova guerra civile

La risposta potrebbe, anzi dovrebbe arrivare dalla politica, ma non accadrà.  Lo stato islamico imposto da Hezbollah non sembra avere più il seguito di un tempo, e prova ne sia l’impiccagione durante le ultime rivolte in piazza della sagoma del leader del movimento, Hassan Nasrallah. Non regge più il complesso gioco di equilibri (Accordi di Taif, firmati alla fine della guerra civile, nel 1989) che per anni ha tenuto insieme sunniti, sciiti e cristiani, introducendo una sorta di “parità rappresentativa” in Parlamento tra cristiani e musulmani. Ma, di fatto, ha cristallizzato il potere conteso non soltanto tra esponenti di diverse confessioni, ma tra clan e famiglie che lo difendono e tramandano come cosa propria, potendo contare su una legge elettorale ad hoc. Scrive Umberto De Giovannangeli su Globalist: «Il problema è che grazie al sistema elettorale basato su quote settarie, i capi delle comunità sono capaci di influenzare i loro elettori. Sciiti, sunniti, cristiani, drusi e tutte le 17 confessioni riconosciute nella Costituzione hanno poca libertà di manovra: di fatto sono costretti a eleggere gli stessi capi-famiglia che negli anni sono diventati capi-mafia, impegnati nel depredare il Libano delle sue ricchezze».

Quindi parlare oggi di “nuove elezioni” vuol dire ben poco. Si chiede il mensile economico libanese, Le Commerce du Levant: le elezioni legislative anticipate consentirebbero di cambiare la situazione e offrire finalmente ai libanesi prospettive di uscita dalla crisi? «È una trappola», sostiene Karim Bitar, direttore dell'Istituto di scienze politiche dell'Università Saint Joseph. «Dopo la tragedia che ha appena vissuto il Libano, è necessario formare una vasta coalizione di opposizione che riunisca partiti cittadini, deputati indipendenti, figure riformiste, che metterebbero da parte le loro differenze per formare un fronte unito».

Il rischio, concreto, è che in assenza di alternative la collera (e la fame) possa sfociare in violenza. Una nuova guerra civile che precipiterebbe il Libano in un caos dai contorni difficilmente prevedibili. Perché i giovani scesi in piazza per protestare non hanno rappresentanza. Nessuno, in Parlamento, vuole la loro rabbia. Anche le forze armate, che in frangenti del genere e con una guida adeguata potrebbero assumere anche ruoli di primo piano, sono un’incognita. Gabriele Iacovino, direttore del Centro studi internazionale (Ce.SI), intervistato da Avvenire, conferma i dubbi «In molti casi l’esercito si è fatto paladino della stabilità, degli interessi della popolazione. Per lungo tempo, le Forze armate libanesi hanno rispecchiato gli equilibri nazionali. Negli ultimi anni, però, la componente sciita è aumentata considerevolmente. Non sappiamo, quindi, come si comporterebbe l’esercito nel caso di un riesplodere della violenza settaria nel Paese. Questa è una delle tante incognite nella crisi libanese».

Pochi giorni prima dell’incidente il patriarca maronita, Bechara Boutros al-Rahi, aveva scritto al presidente del Libano, Michel Aoun, anche lui cristiano maronita ma eletto su “imposizione” di Hezbollah, proponendo di fare del Libano un Paese neutrale nei conflitti arabo-islamici proprio per tentare di superare il baratro economico. E per scrollarsi di dosso l’influenza nefasta della Siria e dell’Iran. Aoun ha risposto sostenendo che l’argomento “non è una priorità”. La crisi del Libano, a guardarla da vicino, è ben più profonda del suo cratere.

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