SOCIETÀ

Le pandemie e le città

Fattori esogeni hanno fatto entrare in crisi molti valori della nostra civiltà. Una risposta non consisterebbe in una città più verde ‘a misura d’uomo’, come si diceva un tempo, in quanto Bergamo, Codogno, il Lodigiano e nove altri centri erano in assoluto equilibrio come centri storici, espansione, territorio, dotazione di verde, giardini storici, ma anche strade trafficate ecc., eppure sono stati al centro del contagio. Le città sono state tra le prime aree del globo a essere colpite, sedi di vita economica e culturale, sono anche il luogo in cui vengono ideate soluzioni creative. 

No! La città dopo la pandemia dovrà esibire, a mio avviso, città-ospedaliere diverse per malati acuti e per lungodegenti.

Le città hanno dimostrato la loro capacità di adattarsi alla situazione globale in rapida evoluzione, fornendo talora risposte locali. La pandemia è stata all’origine di fenomeni che vanno oltre quello strettamente sanitario e quello urbanistico: di particolare rilievo sono quei fenomeni che attengono a settori della vita urbana che hanno effetti sulle attività di tutti noi. La pandemia ha tracciato un solco tra un ‘prima’ e un ‘dopo’, uno spartiacque drammatico; dall’inizio del 2020, nel volgere di poche settimane, gran parte delle nostre certezze si sono frantumate. 

Bisogna esaminare le città ospedaliere che non hanno retto alla pandemia con i contagiati ricoverati anche nei corridoi. L’assistenza sanitaria nei vari periodi storici è stata caratterizzata dal concetto che una data società aveva della malattia ed è stata determinata da condizionamenti di ordine materiale, amministrativo e finanziario. Per quanto concerne la storia degli ospedali, moltissima documentazione esiste in proposito: le tipologie architettoniche si sono andate definendo attraverso i secoli parallelamente allo sviluppo delle tecniche terapeutiche e, soprattutto, del concetto di assistenza. 

Gli ospedali erano locali per il ricovero di poveri e pellegrini, più che luoghi di cura e furono chiamati xenodochi (xenos = forestiero). 

La storia degli ospedali si confonde con quella della vita associata, essendo l’esigenza di isolare i malati (per curarli o più semplicemente per preservare le comunità) sentita anche nelle società primitive. 

Com’è noto, con l’avvento del Cristianesimo e nell’alto Medioevo gli ospedali continuarono a essere dislocati soprattutto in prossimità di comunità religiose; la medicina superava la fase magico-religiosa, ma l’assistenza ai malati si svolgeva nell’ambito delle pratiche di carità.

In epoca moderna, conformemente ai rivolgimenti politici e religiosi verificatisi in Europa, l’amministrazione degli istituti ospedalieri divenne prerogativa dello Stato, identificando l’assistenza ai malati con la tutela dei cittadini sani. L’ospedale perse quindi l’impronta caritatevole per assumere quella definitiva. Tale stato di cose si protrasse sino alla fine del XIX secolo, quando la scoperta dell’antisepsi e lo sviluppo della batteriologia consentirono di risanare l’ambiente ospedaliero, rendendolo adatto a tradurre in pratica le acquisizioni della scienza medica. 

Quando, nel XIX secolo, il sistema di lavoro e di vita individuale si trasforma secondo nuovi metodi produttivi, la città subisce una profonda crisi di rinnovamento. A quel punto le tipologie dei secoli precedenti cedono il passo a un unico tipo di ospedale, quello cittadino con una struttura giuridico-amministrativa ormai di diritto pubblico.

Tuttavia, nella seconda parte del XX secolo le specializzazioni sono state legate soprattutto ai concorsi universitari e alle specializzazioni preferite dai medici, più che a esigenze effettive del territorio, presenti o potenziali. Dopo la pandemia, la società sarà fatalmente chiamata ad affrontare e risolvere una diversa struttura ospedaliera. A spingere verso una consapevolezza su cosa è stato fatto e cosa ancora si dovrà fare ci ha pensato il Covid-19, che ha svelato le fragilità del sistema e allo stesso tempo ha istituito una consapevolezza diffusa. Una città-ospedale intreccerà l’innovazione, la tecnologia, il digitale, la sostenibilità, la chiave per tenere tutto insieme. Vengono in mente possibili recuperi di edifici monastici quasi vuoti, e quindi l’esigenza di verificarne la disponibilità architettonica in rapporto allo stato d’uso, la compatibilità ad accogliere funzioni alternative diverse e la dislocazione territoriale. 

Vi sono conventi quasi vuoti – con pochissimi monaci in rapporto al numero e superficie delle stanze – che si potrebbero espropriare, come avvenne all’indomani dell’Unità d’Italia con le Leggi del 1865 e 1866, da destinare a lungodegenti, nel caso di malattie infettive. Infatti, gli spazi abbandonati sono notevoli e le tecnologie di cura giornaliera sono poste in carrelli specializzati e spostabili nei grandi spazi. Altri “monasteri”, di altro tipo, si affacciano ai giorni nostri nel panorama culturale occidentale. Sono le comunità per il recupero dei tossicodipendenti, i centri di accoglienza per emarginati, le sedi delle associazioni di volontariato che svolgono mille attività assistenziali in favore dei diseredati, le comunità new age ed i centri di ricerca spirituale, che riutilizzano vecchie o nuove strutture insediative extraurbane in cui appartarsi ed abitare, circondati dalla natura. 

Si considerino le profonde modifiche sociali avvenute nel nostro Paese negli ultimi anni, caratterizzate dall’inurbamento di grandi masse di popolazione, dalla progressiva industrializzazione, dal tumultuoso sviluppo dell’assistenza medica in regime assicurativo, che comprende oggi circa il 95% della popolazione, dall’abbassamento della mortalità infantile e della mortalità in generale. Fenomeno quest’ultimo che implica il conseguente invecchiamento della popolazione e, con ciò, comporta riflessi di notevole portata sull’assistenza geriatrica. Gli ospedali possono essere pubblici o privati. Caratteristica dei primi, dal punto di vista giuridico, è la gratuità delle prestazioni a quelli che ne hanno diritto; per case di cura od ospedali privati, invece, è prevalente lo scopo economico, sebbene alcuni di questi abbiano anche finalità assistenziali o gratuità totale o parziale delle cure somministrate (essi sono soggetti a speciale autorizzazione del medico provinciale, il quale deve prima sentire il parere del Consiglio provinciale di Sanità). Gli ospedali pubblici appartengono a istituzioni di assistenza e beneficenza; alcuni appartengono allo Stato (ospedali militari) o a particolari enti, altri a Istituti di previdenza. Attualmente gli ospedali vengono costruiti dalla Pubblica Amministrazione o da privati sotto il controllo delle autorità sanitarie. L’esperienza del passato può farci comprendere l’importanza innovativa dell’epoca presente, segnata dall’informatica.

Servizi sanitari

La salute è diritto di tutti, che è tutelato dalla Costituzione italiana, la cui affermazione è finalizzata alla realizzazione di un determinato trattamento sanitario per disposizione di legge. La maggior parte della popolazione italiana (oltre il 90%) fruisce di assistenza sanitaria su base assicurativa obbligatoria (sistema mutualistico). Con la Legge 23 dicembre 1978, n. 833, è stato istituito un servizio sanitario; con essa viene sancito il concetto di salute, inteso come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. Nello scrivere la legge 833, si pose particolare attenzione al servizio sanitario inglese, perchè oltre a contenere principi informatori, esso possedeva parecchi elementi di completamento ritenuti tra i più avanzati, rispondenti alle esigenze sanitarie di una società del ventesimo secolo (noi tutti studiavamo negli anni ’60 il sistema ospedaliero inglese e le relative tipologie edili sui libri di Corrado Beguinot o libri specialistici). Il nostro Paese aveva già posto precedentemente le basi per un coordinamento sanitario; l’assistenza ospedaliera per provincia poteva portare, se definitivamente adottata, a un’assistenza nel più breve tempo possibile. A partire dalla forma di assistenza ospedaliera, come definita dalla Legge 12 febbraio 1968, n. 132, che prese il nome dell’allora Ministro della Sanità, Luigi Mariotti, la quale estese il diritto all’assistenza ospedaliera a tutti i cittadini, incaricò lo Stato di finanziare il debito degli ospedali e demandò alle Regioni, una volta istituite, il compito di curare la programmazione ospedaliera, è stata percorsa una serie di tappe che vanno dal modello di Unità Sanitaria Locale a quello di Unità Locale dei Servizi Sanitari e Sociali. È necessario ricordare, a questo proposito, che la legislazione vigente prevede la facilitazione di questo processo, disciplinando la formazione di Consorzi tra Comuni e/o Province. La riforma sanitaria, approvata dal Parlamento nel 1978, ha ormai compiuto 43 anni. Le recenti vicende sono testimonianze di un’illusoria rappresentazione: la storia della salute si intreccia con le attuali vicende politiche e la valutazione di quel che può essere la risposta si intreccia alla domanda di salute e coincide con la crisi. 

Ma all’istituzione ospedaliera sono devoluti anche altri compiti, come l’addestramento degli studenti di medicina, la preparazione e il perfezionamento del personale medico e di assistenza immediata, la ricerca scientifica, l’educazione igienico-sanitaria degli infermi e della popolazione. L’ospedale quindi non limita più la sua attività e funzioni interne, ma si proietta verso l’esterno anche sino al domicilio del malato, agendo come un centro di medicina preventiva e sociale. È opinione comune che sia ormai insostenibile il sistema sanitario sorpreso dalla pandemia, incentrato quasi esclusivamente sull’aspetto curativo, a scapito del momento preventivo e riabilitativo. Si è così guardato al problema della sanità e della sicurezza sociale come a una parte organica di un più vasto progetto di rinnovamento. Da questa impostazione derivano i compiti specifici dei Consorzi che hanno compiti anche di prevenzione (da questa consapevolezza, sono scaturite le scelte che ha operato, per esempio, la Regione Emilia-Romagna negli anni ’80, con la costituzione dei Consorzi Socio-Sanitari, i quali, infatti, miravano ad arricchire il Sistema Sanitario nel momento preventivo e riabilitativo, ed erano strumenti di programmazione del territorio). Fra questi interventi è bene ricordare lo sviluppo della riabilitazione e l’inserimento sociale di coloro che, handicappati, anziani, ecc., subiscono spesso le conseguenze di una società “disordinata”. La peculiarità del modello italiano di assistenza sanitaria trae le sue origini dal modello del contemporaneo processo di sviluppo economico avutosi nel dopoguerra. Crescita tumultuosa dei consumi con crescente indifferenza alla qualità. Casa, istruzione, trasporti e naturalmente servizi sanitari e sociali sono chiavi di lettura della storia di questi ultimi cinquanta anni, durante i quali, dopo aver lanciato l’immagine di un “miracolo italiano”, oggi si è costretti ad ammettere ancora che il gap fra aree depresse e sviluppate è notevole.

Sarebbe preferibile che una rete ospedaliera venisse delineata contemporaneamente allo studio e all’impostazione dei piani urbanistici regionali, provinciali e comunali, come si prevedono in rapporto alle esigenze attuali e future della popolazione. Una programmazione ospedaliera interessa un’intera regione e ha innegabilmente bisogno di un rilevamento di elementi e di dati, oggetto di successiva valutazione, i quali possono concorrere per l’elaborazione di un piano assistenziale. Si rendono quindi necessari rilevamenti sul numero e sull’ubicazione delle attrezzature già esistenti, e sulla loro efficienza; è necessario, inoltre, raccogliere dati statistici sulla popolazione attuale, prevedendone lo sviluppo demografico per lo meno per un cinquantennio, tenendo conto dei fattori che possono influire su di esso, come, ad esempio, l’immigrazione, la natalità, la mortalità generale, la mortalità infantile, la letalità per le principali malattie. Dati statistici epidemiologici e nosologici possono dare all’ufficio del programma utili notizie circa la frequenza e l’incidenza di patologie di particolare entità e sulla loro diffusione. 

Si passerà, in un tempo successivo, all’esame del fabbisogno di posti letto nelle diverse zone; è noto che viene richiesta una percentuale di dieci posti letto per mille abitanti comprensiva dell’assistenza agli acuti e ai cronici; in alcune Nazioni a livello economico-sociale più elevato, è stata raggiunta anche la proporzione del 12-15 per mille per le necessità derivanti dalla sicurezza sociale della popolazione. La percentuale dei posti letto sarà in diretto rapporto ai risultati delle indagini e delle prospezioni effettuate sulla popolazione che vi risiede, sull’incremento migratorio, sul movimento della popolazione fluttuante e sulla media delle degenze dei ricoveri effettuati. 

Elementi per una pianificazione

Per i motivi accennati sull’attuale rigidità degli ospedali e spesso sulle loro prestazioni antiquate, molti morti per il Coronavirus sono ascrivibili, sì alla pandemia, ma anche all’impreparazione dell’ospedale e al ridotto numero di posti letto per emergenze che si ritenevano superate. 

I politici e i programmatori hanno sentito il dovere di affrontare con decisione il problema provocato dalla civiltà industriale, con un rifiorire di proposte ed esperienze. Partendo dalla volontà di disporre di un nuovo organismo architettonico, in maniera organica e in armonia con la vita produttiva moderna, si può dire che studi e ricerche sono stati fatti in campo regionale e provinciale, sollecitati anche dall’attrazione di nuove cittadelle sanitarie costruite dal 1960 al 2000, le quali, alla fine, dovranno essere le rappresentanti di quell’alto interesse su questi problemi. 

In definitiva si può dire che nella lotta sui principi per un grande, ma non utopistico progetto di trasformazione, lo scontro sulla riforma sanitaria ha assunto non poche volte il carattere di una battaglia di retroguardia. 

Stabilire un bilancio dell’assistenza sanitaria in Italia nell’anno 2020 comporta una scelta metodologica: quella di misurare, attraverso una valutazione critica della legge di riforma, la validità dell’assetto sanitario nel rispondere alla domanda di salute della popolazione nelle circostanze oggi emergenti. Ogni normativa o legge, in quanto frutto di una mediazione politica, esprime una soluzione “moderata” rispetto alle tesi delle parti coinvolte. In termini generali il momento della codificazione, della fissazione in precetti, norme e quindi limiti, costituisce sempre un arretrato rispetto al processo ideale di ricerca e di affermazione di nuovi principi, il quale, in quanto processo dialettico, è senza fine (se l’ospedale non ha posto o non può per altre ragioni procedere al ricovero, è tenuto ugualmente a provvedere alle cure d’urgenza e poi ad assicurare, con i propri mezzi e la dovuta assistenza, il trasporto dell’ammalato ad altro ospedale).

Ma questo scarto tra l’aspettativa o la domanda e la realtà è un fatto rilevante, poiché è l’espressione di una crisi, quella del movimento per la riforma, che a sua volta è il prodotto di una più generale crisi politica. 

Non molto diversa è la situazione di due componenti dell’assistenza sanitaria: quella medico-ambulatoriale e quella farmaceutica (consumi ospedalieri inclusi). Si tratta di due settori dove operano soggetti ispirati a concezioni affini: la professione medica e un’industria del farmaco proposto come bene di consumo. 

Il tipo costruttivo va progettato in collaborazione con igienisti, con il direttore sanitario dell’ospedale e con gli urbanisti, in rapporto ovviamente alla disponibilità dell’area, alla previsione di spesa e alla funzione da espletare, ai vantaggi o svantaggi nelle realizzazioni.

Dopo anni del Servizio Sanitario Nazionale, nel più recente Patto per la salute la spesa sanitaria italiana risulta molto contenuta (vedi la Legge di bilancio 2019).

L’ospedale, dunque, è il luogo di ricovero, diagnosi, cura, assistenza di malati, in cui si esercitano attività didattiche nella preparazione di medici e di personale infermieristico, e indagini scientifiche in campo clinico. L’idea è fornire occasioni di sviluppo che possano generare nuove attività capaci di creare non solo sostenibilità ambientale e benessere sociale, ma anche stimoli economici e occupazionali, mettendo a sistema dati e conoscenze che sono necessarie nella logica della smart city. L’idea è anche creare una piattaforma di condivisione dati e modelli (Health & Well Being Platform), costruendo digital twin dei casi studio: veri e propri modelli digitali che consentano di riprodurre virtualmente l’aspetto, le forme dello spazio fisico e fornire informazioni. La peculiarità del modello italiano di assistenza sanitaria trae le sue origini da quello del contemporaneo processo di sviluppo economico avutosi nel dopoguerra. Casa, istruzione, trasporti e naturalmente servizi sanitari e sociali sono chiavi di lettura della storia. «La pandemia – viene osservato in un intervento on-line di Raf Tuts, direttore della divisione Global Solutions dell’UN-Habitat, dove è stato presentato il programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani – ha messo in luce l’esigenza di una transizione sostenibile nel sistema dei trasporti, degli spazi pubblici e della sicurezza sanitaria. Soggetti pubblici e privati hanno compreso che gli investimenti in questa direzione sono la chiave per la resilienza oggi, ma anche in futuro, per avere città più vivibili, fruibili ed eque”. L’emergenza sanitaria – e anche quella economica e sociale che essa ha comportato – ha dimostrato che la transizione deve essere un passaggio graduale e veloce. Una pianificazione ospedaliera deve essere inquadrata in una concezione di assistenza sanitaria territoriale: ogni organismo, cioè, deve assicurare il più efficace trattamento di un gruppo di popolazione in una determinata zona, agendo in stretta correlazione funzionale con le altre istituzioni. 

Altri aspetti nettamente connessi alla funzione sono quelli relativi al personale medico e alle attrezzature. Il primo di essi pone come quesito il “tempo pieno” del medico ospedaliero, procedimento già adottato con esperienza favorevole in alcuni paesi (come la Francia, la Scandinavia, l’Olanda e gli USA). La questione presenta problemi economici e tecnici di un certo rilievo. Da una parte, infatti, il medico ospedaliero deve essere messo in grado di aggiornarsi continuamente e di disporre di tutte le attrezzature tecniche e scientifiche indispensabili, ma, dall’altra parte, si richiede al medico di dedicare tutta la propria attività esclusivamente all’ospedale. Per emergenze non previste, selezionando ciò che deve essere fatto fuori o deve essere fatto dentro l’ospedale, non vi è motivo per trasformare un cittadino in un recluso. Stabilire un bilancio dell’assistenza sanitaria in Italia nell’anno 2021 comporta una scelta metodologica: quella di misurare la validità dell’assetto sanitario nel rispondere alla domanda di salute della popolazione nelle circostanze emergenti. La valutazione di questo scarto, il confronto cioè tra la domanda reale o potenziale di salute e le possibilità di risposta, può compiersi utilmente solo nel quadro di un’analisi di questa pandemia, delle sue origini e della sua portata, con riferimento alle realizzazioni che in termini di politica sanitaria si sono avute in questi ultimi anni. 

I possibili recuperi di conventi devono soddisfare la disponibilità planimetrica e la manutenzione in rapporto allo stato d’uso, la compatibilità ad accogliere funzioni alternative e apparati tecnologici, e la dislocazione territoriale in rapporto a improvvise pandemie. 

Parlare di strategia significa inserire nel discorso temi di scala diversa, che riguardano le politiche di tutti gli attori che operano nel territorio. Significa definire il sistema territoriale in quanto sistema eco-sostenibile e rilanciare l’iniziativa per uno sviluppo che sia consapevole dei limiti quantitativi e qualitativi oggi necessari.

L’allungamento dei tempi di formazione delle decisioni sarebbe solo apparente, perché in questo modo si farebbero emergere a uno stadio relativamente precoce eventuali obiezioni e controversie, dando la possibilità di trattare anticipatamente i conflitti.

In Sicilia, in particolare

I Distretti Sanitari in Sicilia sono 62: i loro ambiti territoriali corrispondono a quelli delle ex Unità Sanitarie Locali, individuate con Legge Regionale del 12 agosto 1980. La Cassa per il Mezzogiorno era intervenuta nel 1964 con circa 6.500 milioni di lire, suddivisi tra alcuni Enti ospedalieri; complessivamente il Governo Centrale è intervenuto per 9 miliardi di lire circa, non includendo in ciò i contributi concessi dal Ministero della Sanità per le attrezzature.

In Sicilia, secondo i concetti ammessi dagli esperti per altre Regioni e Paesi, la rete ospedaliera dovrebbe essere riordinata su gruppi fondamentali di istituzioni: 

a) ospedali circoscrizionali o comunali. 

b) ospedali provinciali

c) ospedali regionali; 

d) ospedali per cronici e lungo degenti. 

I primi dovrebbero costituire la maglia periferica della rete, accogliendo gli infermi residenti nel territorio di influenza ed esercitando una prevalente attività medica, chirurgica ed ostetrica, oltre ai servizi di radiologia, laboratori e rianimazione. Questi Enti dovrebbero avere una capacità ricettiva variabile da 100 a 300 letti ciascuno. 

Oggi cresce il ricorso alle cure ospedaliere per i casi più complessi; sono già notevoli le prestazioni sanitarie rese in regime di day service, degenze separabili tra high care e low care, tecnologie recentissime con l’adozione di modelli edilizi innovativi già sperimentati o ancora in corso di innovazione.

Le linee guida, dunque, propongono di trasformare l’emergenza e la discontinuità in un’occasione di coesione e innovazione per la sanità. Grazie all’impegno del Comitato Tecnico Amministrativo, riunito preso l’Assessorato alla Sanità, sono state raggiunte proposte dimensionali, di servizi e di organizzazione ospedaliera aggiornate, dove l’eccellenza sarà la normalità.

La Legge Regionale 3 novembre 1993, n. 30, recava: «Norme in tema di programmazione sanitaria e di riorganizzazione territoriale delle Unità sanitarie locali». La Legge 9 ottobre 2008, n. 10: «Istituzione della Conferenza permanente per la programmazione sanitaria e socio-sanitaria regionale». La Legge Regionale 14 aprile 2009, n. 5: «Organizzazione delle Aziende del Servizio Sanitario Regionale». Quali Enti sono intervenuti negli anni per la realizzazione di opere edilizie nuove o per connessioni urbanistiche aggiornate? 

Nell’ambito del Piano strategico – versione aggiornata al 2007 – occorre che un soggetto si faccia promotore: non può che essere l’Amministrazione comunale, la quale ha mostrato la consapevolezza di volersi misurare con problemi e questioni di scala. La pianificazione strategica è stata avviata mediante uno schema essenziale, a cui l’intero processo, nelle diverse fasi di articolazione, si è richiamato costantemente. Gli ospedali regionali dovrebbero disporre di tutti i reparti di assistenza generica e specialistica anche per le prestazioni più qualificate e complesse, quali ad esempio la neurochirurgia, la cardiochirurgia, la chirurgia toracica, la chirurgia estetica, l’oncologia, la terapia delle ustioni, il trapianto dei tessuti, nonché di sezioni di ricerca scientifica. Gli ospedali provinciali, oltre ai reparti generali di medicina, chirurgia e ostetricia, dovrebbero possedere reparti e sezioni di pediatria, di malattie infettive e delle principali specialità, con centri per la diagnosi e la profilassi delle malattie sociali e servizi di anestesia e rianimazione. Dovrebbe essere sempre annessa una scuola convitto per infermiere diplomate e una scuola per infermieri generici. La capacità ricettiva dovrebbe aggirarsi tra i trecento e gli ottocento letti. Tutti i gruppi ospedalieri dovrebbero essere opportunamente collegati con convalescenziari, cronicari, ospedali geriatrici e istituti di riabilitazione per lo smistamento degli infermi: si tratterebbe in pratica di alleggerire al massimo i servizi di terapia attiva, allontanando presto gli infermi che hanno bisogno solamente di sorveglianza e controllo medico, e trasferendo nei cronicari gli ammalati irrecuperabili, negli istituti di rieducazione quei soggetti invalidi bisognevoli di riabilitazione al lavoro, prima del rientro nella collettività lavorativa. Qualche istituzione, realizzata e dimostratasi superflua o inefficiente a causa della non felice ubicazione, dovrebbe essere eliminata o trasformata; gli ospedali circoscrizionali incompleti dovrebbero essere messi al più presto in condizione di efficienza; l’esperienza acquisita potrebbe indurre ad ampliare quelle unità la cui capacità ricettiva si è dimostrata insufficiente in confronto alle richieste urbane. 

Una soluzione del problema urbanistico – tanto più una vera pianificazione – comporta una ricerca a monte del problema stesso, cioè un’approfondita indagine storica, condotta attraverso una razionale utilizzazione delle varie fonti. Del resto, è stata approvata la Legge Regionale 05/2009 «Norme per il riordino del Servizio sanitario regionale» come riforma del Sistema Sanitario della Sicilia. Il Piano della Salute 2011-2013, poi, avrebbe colmato un vuoto di oltre venti anni. In particolare, il riordino del Policlinico Universitario e dell’Ospedale Civico di Palermo nel 2010, per conto dell’Assessorato alla Sanità della Regione Siciliana, ha comportato, per il miglioramento della qualità delle prestazioni sanitarie, un sistema di monitoraggio e verifica degli obiettivi. Nel settembre 2010 fu convocata una prima riunione dei componenti di un Comitato tecnico per le linee guida della progettazione, dovuta all’intelligenza politica del rettore Lagalla e dell’assessore Russo.

Mi permetto di trattare questo argomento con conoscenze progettuali e realizzative dirette, poiché ho progettato una ristrutturazione del piccolo Ospedale di Palazzo Adriano già nel 1964, due concorsi in collaborazione per l’Ospedale generale a Monfalcone e l’Ospedale psichiatrico a Girifalco (Catanzaro) alla fine degli anni ’70, quattro Divisioni ospedaliere al Policlinico di Palermo (realizzate negli anni ‘80), un secondo Policlinico Universitario completo in zona collinare di Baida (non realizzato, agli Atti del Rettorato dagli anni ’90), il riordino del Policlinico Universitario e dell’Ospedale Civico di Palermo nel 2010, per conto dell’Assessorato alla Sanità della Regione Siciliana.

 

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