SOCIETÀ

Sette secoli di accoglienza del disagio mentale: il modello Geel

Il Medioevo è un’epoca che non associamo spesso alla cura delle persone con disagio mentale. Eppure, da circa 700 anni, una piccola città in Belgio accoglie persone con disagio mentale in modo molto particolare, creando di fatto la più grande comunità terapeutica aperta del mondo. Questo metodo, che oggi si chiama foster family care (o accoglienza eterofamiliare), risale al XIII secolo ed è un’esperienza molto studiata da chi si occupa di psichiatria.

Anche il neurologo e scrittore britannico Oliver Sacks, nella prefazione del libro Geel revisited - After centuries of rehabilitation di Eugeen Roosens e Lieve Van De Walle (2007), racconta una sua visita al borgo fiammingo dove vedeva “gli ospiti passeggiare o andare in bicicletta nelle strade, chiacchierare, lavorare nelle attività commerciali. Non avrei potuto immaginare che fossero pazienti […] se i miei accompagnatori, personale dell’ospedale, non li avessero identificati. Nel mondo i pazienti con malattia mentale sono spesso isolati, stigmatizzati, evitati, temuti, visti come persone non completamente umane. Ma qui, nel piccolo borgo di Geel, mi è sembrato che fossero rispettati come esseri umani e trattati con lo stesso affetto e cura che si riserverebbe a chiunque altro. Quando ho chiesto ai membri delle famiglie ospitanti come mai avessero accolto i loro ospiti, questi sembravano confusi. Perché non avrebbero dovuto farlo? Lo facevano anche i loro genitori e i loro nonni; questa abitudine, qui, è un modo di vivere.”

Oggi i pazienti presi in carico dal Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum (Centro pubblico di cura psichiatrica) sono poi indirizzati alle famiglie ospitanti. In realtà, a Geel, queste persone non sono mai chiamate pazienti, bensì ospiti o pensionanti, e sono trattate come tutti gli altri membri della famiglia ospitante e della società. Intrecciano relazioni, si rendono utili magari anche solo con compiti semplici come fare giardinaggio oppure piccole manutenzioni o laboratori di artigianato, e sono così parte integrante della comunità. Alcune persone rimangono nel sistema solo per pochi mesi, altre per molti anni, altre ancora per tutta la vita.


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La leggenda di santa Dimpna

Ma da dove nasce questo modello? E perché si è sviluppato proprio qui, nel cuore della campagna delle Fiandre? Per rispondere dobbiamo fare un salto indietro fino al VII secolo quando, secondo la tradizione, la principessa irlandese Dimpna (o Dinfna) si rifugia a Geel per evitare alle attenzioni incestuose di suo padre, il re Damon.

La leggenda narra che Dimpna a 14 anni perde la madre, che era una devota cristiana, e segue la sua fede facendo voto di castità. La morte della moglie fa però ‘perdere la ragione’ a suo padre il re, che accetta di risposarsi ma inizia a desiderare la figlia per la sua forte somiglianza con la defunta regina. Quando Dimpna capisce le intenzioni del padre, giura di mantenere i suoi voti e fugge insieme al suo anziano confessore, trovando rifugio proprio a Geel.

Una volta stabilitasi in quello che oggi è territorio belga, Dimpna avrebbe fatto costruire un ospizio per le persone povere e malate della zona. Così facendo però il re scopre dove si trova la principessa e la raggiunge: dopo aver eliminato il confessore, Damon cerca di costringere la figlia a tornare con lui in Irlanda, ma di fronte al suo rifiuto si infuria e la uccide. Sempre secondo la leggenda, gli abitanti del luogo impietositi dalla tragica fine della fanciulla le danno sepoltura in una grotta nelle vicinanze.

Passano i secoli e Dimpna viene santificata nel 1247, anche se il suo culto era presumibilmente già attivo. Infatti, la venerazione popolare attribuiva alle reliquie della giovane uccisa dal padre ‘impazzito’ il potere di guarire le persone con disagio psichico (come le chiameremmo oggi). Nel 1349, proprio a Geel viene costruita una chiesa dedicata al culto di santa Dimpna.

Ma nel 1480, i pellegrini provenienti da tutta Europa in cerca di cure per i disturbi psichici sono così numerosi che il santuario deve essere ampliato per ospitarli. Eppure, nemmeno questo è sufficiente: ben presto anche la nuova chiesa è di nuovo piena di ‘matti’ e di chi li accompagna, così i cittadini di Geel cominciano ad accoglierli nelle loro case.

Da culto religioso a modello di cura psichiatrica

Inizia così una tradizione di assistenza continua per le persone con disagio mentale che attraversa i secoli per arrivare fino ai giorni nostri, e in cui gli ospiti sono accolti nelle case degli abitanti di Geel e dintorni. La prima documentazione scritta su questa pratica risale al 1693 e il sistema di accoglienza rimane sotto l’egida delle autorità religiose fino al 1852, quando viene rilevato dallo Stato e messo sotto la direzione medica.

Al suo apice, negli anni Trenta del secolo scorso, oltre 4000 pensionanti erano ospitati nelle case delle famiglie di Geel, che all’epoca aveva circa 20.000 abitanti. La maggior parte degli ospiti veniva dal Belgio, ma c’erano anche olandesi e francesi, e persino inglesi, spagnoli e russi.

L’antica fama di questa cittadina come luogo di cura e accoglienza per le persone con disagio mentale è testimoniata anche da un aneddoto curioso: pare che anche il padre di Vincent Van Gogh esprimesse il suo desiderio di mandare il figlio nella cittadina fiamminga, affinché venisse preso in carico dalla comunità. O almeno così si legge in una lettera del padre a Theo, fratello di Vincent; in realtà il pittore non andrà mai a Geel per tentare di placare i demoni nella sua mente.

L’esperienza di Geel, che ancora oggi è un caso ben noto nella comunità scientifica (psichiatrica e non solo), viene studiata da oltre 150 anni, come si evince dai molti articoli pubblicati su varie riviste specializzate. Citiamo qui giusto un paio di esempi significativi: nel 1885 sulla rivista americana Popular Science Monthly esce a firma del naturalista Henry de Varigny A free colony of lunatics, e nel 1905 sul prestigioso British Medical Journal viene pubblicato un reportage in tre parti intitolato A report on the care of the insane poor, sempre incentrato sul modello belga.

Con un’integrazione efficace nella vita della famiglia e della comunità, anche chi sembrerebbe essere afflitto in modo incurabile può vivere una vita piena, dignitosa, amata e sicura. Oliver Sacks, neurologo e scrittore

Un esempio di eccellenza premiato dall’Unesco

Oltre alla scienza, anche l’arte vuole la sua parte e così a partire dal 1900 ogni cinque anni a Geel si commemora santa Dimpna con una processione religiosa che attraversa le strade cittadine a metà maggio. Non viene rappresentata solo la leggenda della giovane martire, ma anche la storia della città e della sua speciale pratica di accoglienza. Inoltre, a partire dal 2005 viene anche allestito un imponente spettacolo teatrale intitolato GheelaMania, a cui partecipano circa 500 attori, cantanti e comparse, compresi alcuni ospiti del sistema di foster family care.

Il modello di accoglienza che ancora oggi si fa a Geel è stato inserito nel 2023 dall’Unesco nel Registro delle buone pratiche da salvaguardare. Questo capitolo importante nella storia della psichiatria, ma poco noto al di fuori della comunità scientifica, è anche al centro del libro Geel, la città dei matti – L’affidamento familiare dei malati mentali: sette secoli di storia, di Renzo Villa (Carocci, 2020). Oltre a ricostruire l’intera vicenda, l’autore sottolinea come la neonata scienza psichiatrica nell’Ottocento si ritrovò di fronte a un bivio: seguire l’esempio di Geel o confinare le persone con disagio psichico nelle istituzioni manicomiali. Purtroppo, sappiamo come è andata, ma per fortuna oggi il disagio mentale è affrontato in modo diverso e il metodo usato a Geel viene studiato e in alcuni casi anche esportato altrove.

Prendendo ancora a prestito le parole di Oliver Sacks, l’esperienza di Geel “fornisce una confutazione definitiva della nozione di malattia mentale come una condizione che avanza e si deteriora inesorabilmente e mostra come, se ci può essere un’integrazione efficace nella vita della famiglia e della comunità (e, dietro a questo, una rete di sicurezza di cure ospedaliere, professionisti e farmaci, ove giustificato), anche coloro che sembrerebbero essere afflitti in modo incurabile possono, potenzialmente, vivere una vita piena, dignitosa, amata e sicura”.

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