Nei giorni scorsi Meta, l’azienda che possiede Facebook, ha presentato Meta Head Quest, il suo nuovo visore per la realtà virtuale. Ovvero, lo strumento attraverso cui ci si può - tra l’altro - immergere nel metaverso, il mondo virtuale su cui sta puntando massicciamente l’azienda di Menlo Park. Leggendo i termini d’uso del nuovo apparecchio, si sono però presto sollevate perplessità rispetto all’invasività del tracciamento oculare, ritenuto una criticità dal punto di vista etico.
Il primo a sottolineare il lato problematico è stato il sito specializzato in tecnologia Gizmodo, che in un articolo punta il dito verso una frase in particolare: il tracciamento oculare viene impiegato per “aiutare Meta a personalizzare le tue esperienze e migliorare Meta Quest”. Secondo Gizmodo si tratterebbe della tipica frase utilizzata dalle aziende tech per occuparsi della privacy policy rispetto alla pubblicità. Lo stesso Gizmodo riporta un’intervista rilasciata al Financial Times da Nick Clegg, responsabile degli affari globali di Meta, che lo conferma. Clegg, infatti, ha dichiarato che il tracciamento oculare del proprio visore serve "per capire se le persone interagiscono con una pubblicità o meno”.
“ Il tracciamento oculare serve per capire se le persone interagiscono con una pubblicità o meno Nick Clegg, responsabile degli affari globali di Meta
Come funziona il tracciamento oculare
Indossare un visore per la realtà virtuale significa mettere di fronte agli occhi un complesso artefatto tecnologico. Nel caso del nuovo Meta Head Set stiamo parlando di un oggetto che entra sul mercato italiano a 1799,99 euro. Il “caschetto” serve a immergere l’utente in un mondo tridimensionale digitale sfruttando la possibilità di proiettare ai due occhi immagini leggermente diverse, che permettono di ricreare nella nostra visione la profondità e la tridimensionalità.
In questo mondo virtuale, però, gli utenti si devono poter muovere. Per questo motivo i caschetti sono dotati di sensori in grado di rilevare il movimento della testa e completati da delle manopole da tenere in mano che servono a rilevare il movimento di braccia e mani, e le loro interazioni con l’ambiente. All’interno del nuovo Meta Quest Pro ci sono anche cinque telecamere puntate verso gli occhi e il volto degli utenti. Da una parte, secondo quanto dichiarato proprio da Meta, servono per rilevare le espressioni facciali e le reazioni alle cose che vedono. In questo modo, gli avatar, ovvero le versioni virtuali degli utenti, avranno espressioni e fattezze il più simili possibili a quelle che gli utenti hanno fuori dal metaverso e si muoveranno in modo percepito come più naturale.
La tecnologia si basa su illuminazione infrarossa del viso e degli occhi, che viene rilevata appunto dalle telecamere, in grado tra l’altro di seguire il movimento delle pupille. La versione impiegata da Meta è l’evoluzione più avanzata delle tecnologie per misurare l’attenzione che sono impiegate in psicologia sperimentale fin dall’inizio del XIX secolo. Lo sottolinea Patrick Lecomte, docente all’Università del Quebec (Canada), in un suo commento apparso nei giorni scorsi sul sito The Conversation.
La questione dell’immagazzinamento e dell’accesso ai dati
Secondo quanto i giornalisti specializzati hanno potuto capire da queste prime settimane di analisi, l’investimento di Meta nel tracciamento oculare dovrebbe servire a permettere al caschetto virtuale di capire dove e cosa stiamo guardando. In pratica, questi dati servirebbero a capire se e per quanto tempo gli utenti interagiscono con le pubblicità all’interno del metaverso. Si tratta, quindi, di un sistema di tracciamento dei comportamenti di chi utilizza la piattaforma per monetizzarli. Non a caso, come riporta l’edizione americana di Wired, una delle aziende interessate è Amazon.
Questo tipo di tecnologia, quindi, ha sollevato una discussione del tutto simile ad altri impieghi di tecnologie di tracciamento dei comportamenti degli utenti, come per esempio avviene su Internet o sui social network. Nel caso del tracciamento oculare, al di là delle esagerazioni giornalistiche sul fatto che “rubi i sentimenti” degli utenti, esiste però una fondata preoccupazione del fatto che alcuni dei nostri comportamenti che coinvolgono gli occhi sono del tutto involontari e non controllabili. Come sottolinea Lecomte, questo tipo di informazioni sul comportamento degli utenti sono estremamente personali e il loro tracciamento a fini commerciali pone degli interrogativi etici.
In particolare, una delle preoccupazioni emerse in questi primi giorni è chi può accedere ai dati. Secondo quanto emerso finora, Meta ha dichiarato che prima di venire condivisi con altri soggetti (aziende, partner commerciali, ecc.), i dati saranno anonimizzati. Questo, secondo quanto scrive Lecomte, non sarebbe sufficiente a “impedirà ai sistemi di tracciamento oculare di monitorare le interazioni degli utenti con il mondo esterno a livelli di coscienza di cui non siamo nemmeno consapevoli”.
Un ultimo aspetto riguarda dove saranno immagazzinati i dati degli utenti. Secondo quanto scrive Khari Johnson su Wired, stando alle precisazioni di Meta post lancio della tecnologia, le immagini grezze rilevate dalle telecamere del tracciamento di movimenti oculari e espressioni facciali saranno immagazzinate sul caschetto, elaborati localmente e cancellati subito dopo. Ma la stessa Meta, sempre secondo Johnson, indica che “sebbene le immagini grezze vengano eliminate, le informazioni raccolte da tali immagini possono essere elaborate e archiviate sui server Meta”.
“ I dati saranno anonimizzati, ma questo non impedirà ai sistemi di tracciamento oculare di monitorare le interazioni degli utenti con il mondo esterno a livelli di coscienza di cui non siamo nemmeno consapevoli” Patrick Lecomte
Un vuoto regolatorio
Non è facile aggirarsi tra note sulla privacy rilasciate dalle aziende, commenti su come si debbano rispettare le leggi vigenti in termini di trattamento dei dati personali e la legittima posizione delle aziende che vogliono sfruttare una tecnologia per trarre profitto. Nella discussione imperversata online in questi giorni è chiaro che, come molte altre aziende tech, Meta sostiene che non è compito primario loro regolare gli aspetti etici e di privacy delle proprie tecnologie. Torna sempre fuori un principio molto liberale in stile americano, secondo il quale dovrà essere lo stesso settore ad autoregolarsi, senza che intervegano gli Stati a indicare cosa è lecito e in che modi.
Lecomte, che ha studiato proprio l’implementazione di tecnologie pervasive come il tracciamento oculare, sottolinea che l’autoregolamentazione del settore è sempre stata un fallimento. Ma i tempi di reazione degli stati sono spesso più lenti del progresso tecnologico. E, inoltre, le grandi aziende lavorano sul mercato globale, non facilmente regolabile attraverso l’intervento dei parlamenti e dei governi. L’altro punto importante, tirato in ballo dalle aziende tech, è che se non si è disposti a cedere un po’ della propria privacy (in questo caso il tracciamento dei propri movimenti oculari e quello che permette di dedurre), l’esperienza sulla piattaforma (il metaverso) potrebbe non essere del tutto soddisfacente per gli utenti. Per citare ancora Lecomte, il punto su questa vicenda sembra essere che la domanda fondamentale è “se gli utenti preferiscono essere soddisfatti della realtà virtuale a spese della propria libertà, oppure essere liberi a spese della propria soddisfazione”.