CULTURA

Quando l’Italia era pop (e anche un po’ beat)

“Ci sentivano superiori, non inferiori agli americani: noi avevamo la cultura, loro pensavano soprattutto agli oggetti di consumo”. Sintetizza così la differenza tra pop italiano e americano Fernando De Filippi, classe 1940, a lungo tra i protagonisti della scena artistica nazionale e per quasi un ventennio direttore dell’accademia di Brera. Di fronte ha una sua tela del 1971: Lenin che arringa operai e soldati, apparentemente dipinto secondo i canoni del realismo socialista; solo che, ritratto in un angolino, a riprendere la scena con la cinepresa c’è un Andy Warhol che sogghigna sornione. Vladimir Il′ič Ul′janov come icona pop, al pari di Marilyn? A pochi metri Umberto Mariani commenta tre suoi quadri del fatale 1968, poltrone di pelle che sembrano prese dalle vetrina ma che rivelano un'inaspettata aria sinistra; “oggetti allarmanti”: altro che celebrazione del consumismo!

Siamo nella cornice classica e austera della Basilica Palladiana di Vicenza, dove è stata da poco aperta al pubblico la mostra POP/BEAT – Italia 1960-1979. Liberi di Sognare, nata proprio con la pretesa di contribuire alla rivalutazione di un periodo finora abbastanza negletto ma fondamentale della nostra recente storia culturale. Del resto la pop art nostrana, come riconosceranno gli stessi americani, lungi dall’essere la pallida imitazione di tendenze elaborate altrove ha radici antiche, risalenti perlomeno alle avanguardie di inizio Novecento. Mario Schifano, il Warhol italiano, cita nei suoi quadri Marinetti e Balla, così come Aldo Mondino riprende Severini, mentre dappertutto è un brulicare (soprattutto ad opera di Lucio Fontana) di manifesti, dichiarazioni e prese di posizione sulla natura dell’arte, i suoi compiti e il suo ruolo sociale, con una tensione teoretica e in parte ideologica del tutto sconosciuta agli statunitensi.

Si sperimentano nuovi linguaggi e materiali, con Mimmo Rotella che strappa manifesti e Gino Marotta che usa i polimeri, da poco introdotti dal Nobel Giulio Natta, per produrre sculture in metacrilato dalle forme pulite e i colori brillanti: “L’energia dell’arte italiana non aveva paragone in nessun altro Paese d’Europa”, scrive il critico americano Alan Jones, aggiungendo che è stato un peccato non aver definito queste nuove correnti neofuturismo, piuttosto che appiccicare loro denominazioni dal sapore esotico come appunto pop art e new dada.

La sezione Pop del percorso espositivo, ambiziosamente ideato e curato dall'artista Roberto Floreani con il patrocinio del Comune di Vicenza e Silvana Editoriale, mette in scena un centinaio opere originali di grande formato di trentacinque maestri del calibro Enrico Baj, Mario Ceroli, Tano Festa, Ugo Nespolo e Michelangelo Pistoletto, oltre ai citati De Filippi, Mariani, Rotella e Schifano. Ad essi viene affiancata – ed è forse la parte più originale della del progetto – una sezione sul movimento beat italiano, nato in seguito alla pubblicazione nel 1964 da parte di Fernanda Pivano della fondamentale antologia Poesia degli ultimi americani, che gradualmente contribuisce a spostare l’attenzione dei giovani da Pavese, Baudelaire e Svevo a Kerouac, Ginsberg e Ferlinghetti.

In Italia saranno subito riduttivamente identificati come “capelloni”, ma la rivoluzione che mettono in atto è molto più profonda: da Milano a Torino l'influenza della musica e della cultura Beat culmina nella rivoluzionaria esperienza siciliana dell'Antigruppo, nato in antitesi al Gruppo 63 e operante per oltre un ventennio, annoverando tra i suoi membri decine di poeti, narratori, pittori e grafici, tutti guidati dalla carismatica figura dello scrittore siculo-newyorkese Nat Scammacca. Numerosi i documenti e le prime edizioni presenti in mostra, incluse alcune autentiche rarità bibliografiche, in buona parte autografate dagli autori. La musica dei cantanti e dei gruppi dell’epoca, ancora ben presenti nell’immaginario collettivo, completa un’esperienza di visita immersiva e moderatamente lisergica.

Le immagini del Festival internazionale dei poeti, sorta di Woodstock all’italiana tenutasi dal 28 al 30 giugno 1979 sulla spiaggia libera di Castelporziano, danno l’idea della creativa anarchia di quegli anni. È però il classico canto con cui il cigno preannuncia la sua morte. L’anno prima il delitto Moro ha mostrato fino a che punto può arrivare il fanatismo ideologico, del quale anche la generazione cresciuta nel ventennio ’60-’70 è imbevuta, mentre le droghe pesanti iniziano a falcidiare i più giovani. Gli anni di piombo lasciano spazio al cosiddetto edonismo reaganiano, dagli hippies si passa agli yuppies, dall’intellettuale impegnato all’artista-star coccolato da critici e galleristi (e adesso anche dai followers): a vincere, anche dal punto di vista culturale, è il modello americano. Con una punta di nostalgia per quegli anni pieni di fiori e di colori, dove l’amore era diventato una bandiera e ci si sentiva liberi: di sognare perlomeno.

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