SOCIETÀ
Aldo Moro, la memoria difficile
Foto: Angelo Palma/A3/Contrasto
A 40 anni di distanza la figura di Aldo Moro resta per molti indissolubilmente legata al suo sequestro e all’uccisione ad opera delle Brigate Rosse. Una visione che deriva da una reazione naturale rispetto a quello che forse fu il momento più drammatico della nostra storia repubblicana, ma che rischia pesantemente di ostacolare la comprensione di una figura fondamentale. Perché Aldo Moro, oltre a essere politico, studioso e vittima del terrorismo, fu anzitutto uomo dal pensiero raffinato e di grande sensibilità politica, sociale e umana, che seppe leggere la società in cui viveva ma anche prevederne alcuni fondamentali sviluppi. Un esponente esemplare di quella formidabile generazione di intellettuali e militanti che fu chiamata dalle circostanze storiche a disegnare l’architettura della nostra convivenza civile.
Anche per questo l’università di Padova ha ospitato il 20 marzo l’incontro organizzato da PadovaLegge, al quale – oltre al presidente dell’associazione Fabio Pinelli – sono intervenuti Luciano Violante, già componente della commissione d’inchiesta sul caso Moro, i docenti padovani Marco Almagisti e Carlo Fumian e Gianni Oliva, storico, giornalista e autore del libro Il caso Moro. La battaglia persa di una guerra vinta. A moderare il dibattito c’era Paolo Possamai, direttore del Mattino di Padova, giornale che proprio in questi giorni compie 40 anni, avendo iniziato le proprie pubblicazioni durante i giorni drammatici del sequestro.
Moro dunque non fu solo il giovane costituente dall’‘intelligenza acuta e pensosa’ (secondo le parole di Dossetti), il politico avveduto dal presunto eloquio fumoso, certo così stridente rispetto gli slogan a cui oggi siamo abituati: nel ’68 ad esempio, secondo l’analisi di Luciano Violante, fu anche l’unico uomo delle istituzioni “che si preoccupò di capire cosa accadeva nella mente dei giovani; di interpretare la domanda di giustizia, di equità e di cambiamento nella società italiana. Per questo è doppiamente tragico che ad ucciderlo siano stati proprio gli esponenti di quelle giovani generazioni che aveva cercato di comprendere”.
Lo statista democristiano era insomma lontanissimo da quell’immagine di ‘uomo degli americani’ , di esponente del SIM (stato imperialista multinazionalista) da disarticolare e colpire al cuore che i terroristi si erano ritagliata. “Agli interrogatori delle Br Moro risponde con una puntigliosa, attenta e articolata difesa del suo progetto politico, per il quale aveva combattuto durante tutta la sua vita – spiega il politologo Marco Almagisti –. Che, al contrario di quello che sostenevano i terroristi, consisteva proprio nella ricerca di una difficile, contrastata e sofferta autonomia in un mondo polarizzato dalla divisione in blocchi”.
Certo non era stato facile fare dell'Italia postbellica e postfascista una democrazia, l’unica allora esistente in tutta l’Europa meridionale. C’era però un costo: al tempo della guerra fredda l’egemonia del PCI in seno alla sinistra italiana impediva di fatto l’alternanza alla guida del Paese. Si trattava però di una situazione che dopo trent’anni rischiava di logorare le istituzioni repubblicane: per questo, quando la sua vita fu così drammaticamente interrotta, Aldo Moro stava lavorando per rendere possibile, se non un’alternanza, almeno una collaborazione strutturata tra le due principali forze politiche del Paese. Un progetto malvisto proprio dall’amministrazione statunitense, in particolare da Henry Kissinger.
Ciò ha dato adito fin dall’inizio alle più diverse ricostruzioni e dietrologie, che periodicamente ad ogni anniversario e ricorrenza riprendono corpo. A questo riguardo Luciano Violante, giudice istruttore all’epoca dei primi processi ai terroristi, è netto: “Ad uccidere Moro sono state le Br. E noi e loro non eravamo uguali, non lo siamo mai stati: vittima e assassino non sono mai uguali”. Il riferimento è al protagonismo di alcuni ex terroristi, e soprattutto al modo in cui le vicende di allora sono raccontate dai media: secondo il politico e magistrato “sembra quasi che i terroristi ricevano oggi quella legittimazione che ieri gli fu rifiutata dalla democrazia. E questo è doloroso, perché per quel rifiuto morirono molte persone”.
Lo storico Carlo Fumian dà a questo proposito qualche numero: solo in Italia furono 491 le vittime e 1.181 i feriti per ragioni politiche, senza contare gli innumerevoli altri atti di violenza. Una brutalità che le generazioni dei millenials oggi faticano a comprendere nelle sue reali dimensioni. Basti pensare che proprio nei giorni del sequestro, il 22 aprile 1978, a Padova all’interno del Liviano venivano sparati quattro colpi nelle gambe del professor Ezio Riondato, e che pochi giorni prima, sempre nello stesso atrio della facoltà di Lettere, veniva fatta trovare una bara con un cartello su cui era scritto ‘Per Moro’.
Ma qual era l’obiettivo dei brigatisti? “Quello di disarticolare lo stato – risponde Fumian –, da una parte attaccandolo con strutture clandestine e dall’altro creando una situazione di illegalità di massa”. Una strategia elaborata fin dalla fine dell’800 dai Narodnaja volja russi (‘Volontà del popolo’, il gruppo che assassinò lo zar Alessandro II): quella di provocare da parte dello stato una repressione tanto insopportabile da spingere i cittadini a schierarsi con i terroristi. “I brigatisti volevano trasformare la società in un inferno, allo scopo di aprire le porte al paradiso rivoluzionario. Può sembrare aberrante, ma negli anni ‘70 c’era chi lo pensava”.
Oggi, paradossalmente, quella che rischia di sopravvivere è la memoria dei carnefici di allora, con tutto il loro apparato di giustificazioni ideologiche, mentre i nomi delle vittime si perdono nell’oblio della coscienza collettiva. Una memoria che invece andrebbe coltivata, magari anche attraverso un bosco o viale ‘degli innocenti’, simile a quelli con cui oggi vengono ricordati coloro che si opposero al nazismo e agli altri genocidi: “Pensate, verrebbe fuori un viale di otto chilometri – conclude Fumian –, e consideriamo che ogni vittima aveva a sua volta decine di familiari, conoscenti e colleghi. Forse ci aiuterebbe a capire il genere di ferita che allora fu inferta al nostro Paese”.
Daniele Mont D’Arpizio