SOCIETÀ

La complessa eredità della Democrazia Cristiana

È stata una delle forze politiche più influenti e longeve nella storia italiana; nata mentre il Paese era ancora occupato da eserciti stranieri, ha guidato la rinascita democratica e la ricostruzione. Eppure, a poco più di 80 anni dalla fondazione e a 30 dallo scioglimento, della Democrazia Cristiana si parla e si scrive ancora poco, e quasi mai bene. “C’è ancora una sorta di leggenda nera – conferma Paolo Pombeni, storico e docente emerito presso l’Università di Bologna –. Colpa forse del nostro sistema politico, che dall’unità a oggi ha prosciugato chi lo ha retto. Liberali, fascismo, Dc e berlusconismo sono tutti crollati nell’arco di una notte, pur non lasciando il posto ai loro oppositori storici. Il potere forse, al contrario di quanto diceva Andreotti, logora anche chi ce l’ha”.

Anche nella ricerca storica a lungo ci si è concentrati soprattutto sui leader e sull’attività di governo, trascurando gli aspetti ideologici e organizzativi del partito che ha plasmato l’Italia del dopoguerra. “Già all’inizio e tanto più oggi le peculiarità la Democrazia Cristiana, partito di ispirazione cristiana ma laico e aconfessionale, non erano facili da comprendere per il grande pubblico – aggiunge Guido Formigoni, docente di storia contemporanea all’università IULM di Milano –. D’altra parte anche la Dc non ha sempre curato la propria memoria: basti pensare che, dopo lo scioglimento, quasi per caso i suoi archivi si sono salvati dalla dispersione”. Anche per questo, assieme a Giorgio Vecchio (già storico presso l’università di Parma), Pombeni e Formigoni hanno pubblicato quest’anno con Il Mulino una poderosa Storia della Democrazia Cristiana. 1943-1993.

La specificità della Dc sta proprio nel riuscire a tenere insieme posizioni molto lontane

Le ragioni del successo

Dopo tanti anni la ‘balena bianca’ continua a sfuggire alle definizioni troppo semplicistiche: “Fin dall’inizio il partito è contraddistinto da un pluralismo variegato ed è percorso all’interno dalla faglia tra conservatori e riformisti che caratterizza tutta la società italiana – continua Guido Formigoni –. La specificità della Dc sta proprio nel riuscire a tenere insieme posizioni molto lontane: in parte per lo spauracchio comunista, ma anche perché la sua mediazione spesso si rivela lungimirante”. Non è un caso che De Gasperi lo descriva come partito di centro che guarda e si muove verso sinistra: “Una frase che, a differenza di quanto scrive Aldo Cazzullo, lo statista trentino pronuncia più volte fin dal ‘45. La Dc è un partito di garanzia antirivoluzionaria, che rassicura gli elettori spaventati dal cambiamento, ma riesce anche a portare questo consenso tradizionale e conservatore ad accettare l’evoluzione della società. Vengono da qui le riforme iscritte nella prima parte della Costituzione, che delinea uno Stato democratico e sociale”. Anche se tenere insieme ‘correnti’ così diverse ha anche un costo: “chiunque vinca deve sempre in qualche moderare le sue posizioni. Nasce da questo il costante sopire e mediare che nell’immaginario comune definirà la politica dello scudo crociato”.

Per Paolo Pombeni un altro merito della Democrazia Cristiana è di essere, perlomeno fino alla metà degli anni ’60, il canale di formazione di una nuova classe dirigente: “Poi, soprattutto con il fallimento del centrosinistra nel ’64, l’appeal innovatore viene meno proprio mentre nella Chiesa si parla di riforma. Per questo dopo il concilio buona parte delle nuove generazioni di cattolici sceglie di non entrare nel partito”. Lo stretto rapporto con la  Chiesa cattolica non va comunque confuso, secondo Pombeni, con una dipendenza dalle gerarchie ecclesiastiche: "Andrebbe sfatata l’idea di una Dc succube del Vaticano, come credo di aver sufficientemente documentato in recente libro sulle vicende del centrosinistra – continua –. Una parte importante del gruppo dirigente, a partire dai dossettiani fino a Moro e Fanfani, resiste più volte in maniera decisa al tentativo della Chiesa di ‘dare la linea’, perché si rende conto che il Paese va verso una modernizzazione che non può essere bloccata”. Per quanto invece riguarda il rapporto con gli Stati Uniti “vale la grande intuizione di De Gasperi, che fin dagli anni ‘30 comprende il declino della Gran Bretagna e che, a differenza di quanto proporranno i dossettiani, in un mondo diviso in blocchi non si può restare neutrali. La linea resterà quella, pur con qualche aggiustamento: Fanfani, pur essendo atlantista è attento al mondo arabo, mentre La Pira e il suo discepolo Enrico Mattei guardano con interesse al processo di decolonizzazione".

Con il fallimento del centrosinistra nel ’64 l’appeal innovatore del partito viene meno, proprio mentre nella Chiesa si parla di riforma

Un lungo declino, poi il crollo

Tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio del decennio successivo il Paese viene investito da un rivolgimento che coinvolge tutto il mondo occidentale: vengono meno molti punti di riferimento, si assiste alla prima crisi petrolifera e a quella del dollaro, in generale si esaurisce l’ottimismo del dopoguerra. “Lo stesso ’68, più che un fattore scatenante, è l’espressione di una società più complessa e quindi difficile da interpretare – chiosa Formigoni –; allo stesso tempo i poteri statuali sono sempre più compressi dalla globalizzazione dei mercati e dalle grandi realtà internazionali. Sarà soprattutto Aldo Moro a tentare di responsabilizzare all'interno del sistema democratico un partito che, come il Pci, interpreta molti di questi cambiamenti: un progetto che però sarà interrotto in modo tragico, lasciando la Dc spiazzata”.

Essenziale è l’aspetto della secolarizzazione, che oltre a erodere la base sociale del partito dei cattolici frammenta sempre più la società in una moltitudine di individualismi, ciascuno con il proprio orizzonte valoriale; un processo che, secondo gli autori del libro registra una tappa fondamentale nel referendum sul divorzio del 1974, dove la Dc punta sull’abrogazione per doversi poi piegare alla vittoria del no. “Il nodo non è tanto l’aspetto dottrinale quanto il cambiamento dei costumi, sui quali il potere della Chiesa va svanendo – conferma Paolo Pombeni –. L’influenza dei grandi giornali d'informazione, tutti per il divorzio, e soprattutto dei rotocalchi e del cinema ha ormai distrutto quell’idea rurale di famiglia alla quale il mondo cattolico è ancora attaccato”.

Il declino ha dunque radici lontane: “Negli anni ’70 la Dc si adagia in quella che Ruggero Orfei definisce in un libro l’occupazione del potere – riprende Guido Formigoni –. Si parla apertamente di questione democristiana ma la classe dirigente del partito si sente al riparo da rischi e, non affrontando i problemi, rende strutturale il proprio declino. Se con la vittoria di Willy Brandt nel 1969 la Cdu tedesca va all'opposizione ed è costretta a ripensarsi profondamente, la Dc al contrario pensa di restare in eterno al governo”. Un gioco che dura fino agli sconvolgimenti della fine degli anni ’80: se da una parte con il crollo del muro viene meno il ruolo di argine al comunismo, dall’altra crisi finanziaria e crollo della Lira, esplosione del debito pubblico e trattato di Maastricht ridisegnano il contesto socio-economico. “Soprattutto le regioni settentrionali non seguono più il partito, facendo esplodere una sintesi in apparenza solida e duratura”, conclude Formigoni.


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Una lezione per oggi?

Se già con le elezioni regionali del 1990 la Lega miete i primi successi nelle regioni ‘bianche’ del nord, il tracollo avviene con l’inchiesta Mani Pulite, che di fatto spazza via i partiti al governo. Uno stravolgimento così repentino da lasciare ancora oggi spiazzati diversi osservatori e studiosi, tra cui lo storico britannico Donald Sassoon. Sta di fatto che quello che per alcuni è l’inizio della ‘seconda repubblica’, per altri è l’avvio di una fase di transizione della quale, a 30 anni di distanza, non si vede la fine. Tanto da giustificare un certo rimpianto, non solo verso un periodo di crescita economica e sociale, ma anche per un modo più ragionato e in apparenza ‘mite’ di fare politica.

Una nostalgia addirittura eccessiva – conclude Paolo Pombeni –. Resta il fatto che Dc ha saputo tenere insieme il Paese in un periodo di grande trasformazione. Oggi ovviamente non ha più molto senso pensare a un partito cattolico; la Dc era anche figlia di una realtà che non esiste più: un comune sentire che, al di là della visione dei singoli, si riconosceva profondamente nei valori e nei riti cristiani. Come nei romanzi di Guareschi, dove don Camillo e Peppone, pur acerrimi nemici dal punto di vista politico, alla fine si ritrovano su valori e una cultura comuni che oggi, in tempi di individualismo estremo, non esistono più. Per questo oggi è difficile pensare di rifondare non solo partiti come la Dc, ma anche come il Psi o il Pci, che siano cioè l'espressione di un modo comunitario di sentire e fare politica, oggi soppiantato dalla mitologia dei diritti individuali”.

“Un'esperienza di quel tipo è oggi del tutto irripetibile, ma resta comunque interessante in un’epoca di polarizzazione estrema, in cui si insiste sulla verticalizzazione del potere e sull’uomo o la donna soli al comando – conferma Formigoni –. La Democrazia Cristiana rappresenta un modello di politica per almeno 30 anni ha saputo aiutare l’Italia a uscire da difficoltà molto forti con la mediazione, la costruzione paziente del consenso e la ricerca di itinerari condivisi. Un'immagine rovesciata rispetto alla politica attuale, ma che proprio per questo, pur con tutti i suoi aspetti problematici, ha ancora qualcosa da dirci”.

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