SCIENZA E RICERCA

Quoziente intellettivo di 100? Nella norma. Serve intelligenza fluida

Vi sarà capitato, più o meno frequentemente, di recarvi a una festa. Voci spesso assordanti intorno, musica sullo sfondo, rumore di calici. Incontrate un amico che non vedete da tempo e iniziate una conversazione serrata che vi isola dal contesto, letteralmente: il rumore diventa brusio, alle notifiche non prestate attenzione e restate concentrati sul vostro interlocutore. All’improvviso, in lontananza, sentite pronunciare il vostro nome: nonostante fino a quel momento nulla vi abbia distolto dalla piacevolezza dell’incontro, a quel punto (e solo a quel punto) vi girate automaticamente in quella direzione. Mai successo?

In psicologia questo fenomeno è noto come “effetto cocktail party” e indica la capacità del nostro cervello di filtrare le informazioni che riceve (a meno che non siano ritenute importanti). Uno studio pubblicato quest'anno su Nature Human Behaviour fornisce notizie proprio sui meccanismi cerebrali che ci consentono di valorizzare le informazioni rilevanti, escludendo allo stesso tempo le distrazioni. Partiamo da qui per rispondere ad alcune domande che talora probabilmente ci siamo posti: per esempio, attenzione e concentrazione sono sinonimi? Giova essere multitasking? Ancora, si può allenare la mente? Oppure, cosa implica avere un quoziente intellettivo (QI) pari a 100?

Non distrarti e presta attenzione!

Spesso i termini “attenzione” e “concentrazione” vengono usati indistintamente e in modo intercambiabile, in realtà qualche distinzione è necessaria. “L’attenzione – spiega Giovanni Mento, professore di neuropsicologia dello sviluppo all’università di Padova con cui abbiamo affrontato l’argomento – è un meccanismo cognitivo che ci permette di convogliare la nostra attività mentale verso uno stimolo che proviene dall’ambiente che ci circonda”. Che può essere la lezione di un docente, l’intervento di un collega a lavoro o il dettaglio di un quadro al museo. Si parla in questo caso di attenzione selettiva, che può essere guidata da obiettivi interni (endogena dunque) o catturata dall’esterno (esogena). 

A seconda dei casi, si avrà poi la necessità di mantenere il focus sull’attività da svolgere più o meno a lungo e qui entra in gioco la concentrazione, che può essere definita come il mantenimento nel tempo dell’attenzione. “Può capitare poi di trovarci in una situazione che non solo richiede di selezionare una parte degli input che provengono dall'ambiente e di mantenere nel tempo questa attività, ma anche di gestire potenziali stimoli in conflitto”. Si parla in questa circostanza di controllo cognitivo tra target e distrattori

Qualche termine tecnico concedetecelo, ma non scoraggiatevi. 

“Ebbene, una specifica struttura del nostro cervello – argomenta il docente – è associata alla capacità di aumentare la concentrazione e contemporaneamente di inibire le distrazioni: si tratta di un circuito che vede una regione mediale del lobo prefrontale (corteccia cingolata) comunicare con il solco intraparietale, una regione situata posteriormente all’interno del lobo parietale (si pensi a una sorta di autostrada di collegamento). Quando la corteccia cingolata anteriore rileva la necessità di aumentare il controllo (quando per esempio aumentano gli elementi ambientali distraenti o imprevisti) si attiva maggiormente, comunicando al solco intraparietale la necessità di modulare l’attenzione per inibire gli stimoli distrattori in favore di quelli rilevanti. Questa regione a sua volta comunica con le aree visive e motorie”. Da tempo gli scienziati sono a conoscenza  della relazione tra queste due aree cerebrali. Ora l’articolo uscito su Nature Human Behaviour aggiunge dettagli sulle modalità di interazione tra queste due zone del nostro cervello.

Bene, se avete seguito il ragionamento fino a questo punto, nonostante i (necessari) tecnicismi anatomici, probabilmente siete sufficientemente interessati e concentrati per andare oltre.

Multitasking? Potrebbe non essere una buona idea

Alleggeriamo il carico e immaginiamo ora un paio di situazioni frequenti. Prendiamo, per esempio, quattro amici al tavolo di un ristorante: la conversazione slitta continuamente dai commensali allo schermo del cellulare, di solito posato sul tavolo. Due chiacchiere, una notifica. L’attenzione si sposta. Altre due chiacchiere, altra notifica. Di tanto in tanto il cameriere. Cambiamo luogo e tempo e andiamo nelle case di molti ragazzi e ragazze che nel pomeriggio svolgono i compiti assegnati dall’insegnante, lanciando frequenti occhiate alle chat di Whatsapp. La concentrazione sull’attività principale, in entrambi i casi, viene continuamente interrotta. 

“Quando saltelliamo da un’attività all’altra – sottolinea Mento –, mettiamo a dura prova il nostro sistema nervoso, poiché il cervello non è in grado di compiere due azioni cognitivamente impegnative contemporaneamente: il cervello non è multitasking, ma anzi il multitasking ha effetti negativi anche a livello psicofisiologico. Svolgere troppe attività insieme, specie se richiedono molta attenzione e sono stressanti, incide sul sistema cardiovascolare, per esempio, tramite la produzione di cortisolo e di altri ormoni. Se ci troviamo a dover effettuare due compiti nuovi, come realizzare una ricetta mai provata prima e parlare al telefono, uno dei due non andrà a buon fine, proprio perché la nostra attenzione è meno efficace se divisa su più fronti”. Cosa diversa invece se abbiamo automatizzato una delle due attività, come avviene quando guidiamo.  

Trattiamo bene il nostro cervello fin dalla nascita

A questo punto è naturale chiedersi se esistano dei modi per “allenare” il cervello e migliorare le nostre capacità di attenzione e concentrazione. “Partiamo dal fatto che si tratta di abilità con cui in parte nasciamo, abbiamo cioè già  una sorta di predisposizione e alcune persone nascono con capacità più sviluppate di altre. A farla da padrone, tuttavia, è l'ambiente cioè gli stimoli a cui tutti noi siamo esposti, le condizioni di vita quotidiane. Alcuni studi, per esempio, dimostrano che l’esposizione precoce dei bambini a un eccessivo abuso digitale (dunque già a uno o due anni) rischia seriamente di andare a intaccare il funzionamento di questi circuiti cerebrali che sono già presenti alla nascita e poi possono svilupparsi in maniera disfunzionale”. Giovanni Mento sottolinea dunque che è fondamentale trattare bene il nostro cervello fin dalla nascita, poiché data la sua plasticità si possono influenzare le capacità di attenzione.

Spegni il telefono e allena la mente

La concentrazione dunque è una capacità che può essere allenata. In che modo? “Bisogna mantenere una sorta di igiene mentale, cioè un ambiente lavorativo, di studio o anche ricreativo in cui ci siano meno distrazioni possibili. Per esempio, si può spegnere il telefono per una o due ore al giorno e dedicarsi ad attività che allenano le capacità di concentrazione e ne favoriscono il mantenimento nel tempo, come la lettura di un libro o la meditazione”. 

Detto questo si deve comunque considerare che ognuno di noi ha dei vincoli con cui fare i conti che derivano per esempio dalla genetica o dall’età: a 20-30 anni è più difficile ottenere dei risultati rispetto a quando si è bambini. “Certo, si può sempre fare molto e la differenza sta nelle posizioni di partenza: possiamo scegliere di essere noi a controllare l’ambiente, decidendo il grado di energia mentale da spendere in una specifica attività, o possiamo farci trascinare dalle distrazioni che ci stanno intorno”.

Serve intelligenza fluida

A questo punto sorge una domanda: chi ha maggiori capacità di attenzione e concentrazione è più intelligente? “Quando si vuole misurare l'intelligenza attraverso i test – spiega Mento – si deve scegliere innanzitutto una modalità che automaticamente però ne esclude altre. In ambito clinico il gold standard per esempio, soprattutto in caso di bambini, calcola l’intelligenza misurando un fattore generale (QI) e altri fattori correlati (indici) che riflettono abilità diverse ma per lo più legate alla sfera logico-razionale, tralasciando quelle legate alla sfera emotiva, sociale, musicale, motoria, e così via. Alcuni studiosi non a caso parlano di ‘intelligenze multiple’, anche se le evidenze empiriche a sostegno di questa teoria rimangono ancora scarse e resta un argomento controverso”. Un QI pari a 100 dunque significa semplicemente avere un’intelligenza nella norma. 

Va detto che l’intelligenza comprende da un lato la capacità di applicare le conoscenze e le informazioni acquisite nel corso della vita (in gergo tecnico si parla in questo caso di intelligenza cristallizzata); dall’altro l’abilità di manipolare concetti e ragionare su problemi, dando loro una soluzione (intelligenza fluida). Questo secondo tipo di intelligenza ha a che fare con il controllo cognitivo, dunque con la capacità di attenzione e concentrazione di cui abbiamo parlato e diminuisce con l’età. “Si prenda una persona di 80 anni: in condizioni normali difficilmente avrà perso il suo vocabolario, il significato delle parole acquisite nell’arco di una vita, ma avrà probabilmente qualche difficoltà in più qualora le vengano richieste memoria di lavoro o abilità di concentrazione”. Conclude Giovanni Mento: “A parità di intelligenza, per come siamo soliti misurarla, vince chi ha una migliore capacità di attenzione e controllo cognitivo, quello che in ambito clinico viene misurato con i test di funzioni esecutive”.

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