Albert Einstein
A quattro anni dalla prematura scomparsa di Pietro Greco, ripubblichiamo dal nostro archivio uno dei suoi articoli. Abbiamo scelto di riprendere in mano il manifesto Einstein-Russell perché, nei tempi in cui viviamo, rimane - per le considerazioni fatte e per la presa di posizione del mondo scientifico - ancora di attualità e di utilità.
16 febbraio 1955. Il logico e filosofo inglese Bertrand Russell, 83 anni, premio Nobel per la letteratura 1950, turbato, scrive una lettera ad Albert Einstein: «Penso che eminenti uomini di scienza dovrebbero fare qualcosa di spettacolare per aprire gli occhi ai governi sui disastri che possono verificarsi». Russell allude al problema nucleare, che in quegli anni – in quei mesi – sta registrando una forte accelerazione.
Albert Einstein, 76 anni, premio Nobel per la fisica 1921 e, probabilmente, lo scienziato più famoso di ogni tempo, risponde in capo a cinque giorni. Non meno turbato, il tedesco invia il 16 febbraio una lettera a Bertrand Russell proponendo una «dichiarazione pubblica» che loro due e altri eminenti uomini di scienza avrebbero potuto firmare.
Cosa rende inquieti quei due anziani uomini di scienza, pacifisti conclamati?
Beh, il fatto che a partire dal 1952, infatti, le strategie nucleari degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, sono mutate radicalmente. I fattori di novità nel panorama delle armi atomiche sono ormai così innumerevoli e così profondi che il rischio di una guerra nucleare totale in grado di distruggere gran parte dell’umanità e l’intera civiltà umana diventa, per la prima volta nella storia, un rischio concreto.
I fattori di novità riguardano la proliferazione, la crescita incontrollata e praticamente illimitata degli arsenali, il dispiego a largo raggio delle armi, l’uso dei sommergibili atomici e, soprattutto, l’irruzione sulla scena dei missili in grado di trasportare in pochi minuti testate atomiche in ogni parte del mondo.
Che esista un problema concreto di proliferazione nucleare orizzontale lo dimostra la Gran Bretagna, che, proprio nel 1952, mette a punto le sue prime armi a fissione. A partire da questo momento, l’arma atomica non appartiene solo ai paesi leader, Usa e Urss, dei due schieramenti geopolitico-militari contrapposti, l’Ovest capitalistico e l’Est comunista. Negli anni a venire molti altri paesi entreranno a far parte del club nucleare.
Ma ciò che preoccupa è la proliferazione cosiddetta verticale: la corsa a riempire gli arsenali di Stati Uniti e Unione Sovietica. La crescita incontrollata degli arsenali riguarda, ancora una volta, soprattutto gli Stati Uniti. Nel 1962, alla fine di un decennio all’insegna di un riarmo tanto forsennato da essere definito, appunto, incontrollato, gli USA potranno dispiegare qualcosa come 27.297 testate nucleari. Molte delle quali sono bombe H, a fusione, di inaudita potenza. Alcune sono dispiegate anche in Europa. Tutte insieme, bombe a fissione e a fusione, a potenza controllata o incontrollata, devono rispondere al nuovo obiettivo strategico fissato dai militari americani: la rappresaglia massiccia. Assestare nel più breve tempo possibile il colpo nucleare più duro possibile all’avversario come rappresaglia, appunto, in caso di guerra convenzionale scatenata dall’URSS in Europa.
Per dare corpo alla strategia della rappresaglia massiccia, gli USA impegnano risorse finanziarie enormi e forniscono una nuova, formidabile accelerazione sia alla costruzione di nuove armi nucleari sia di aerei per trasportarle.
Fautore sul piano politico della nuova strategia è John Foster Dulles, segretario di Stato dal 1952 al 1959. A guidare il complesso militare-industriale che dà corpo a questa politica producendo nuove armi è Charles E. Wilson, già capo della General Motors e ministro della Difesa. Inutile dire che la General Motors è tra i maggiori beneficiari di questa nuova accelerazione nella corsa agli armamenti.
La nuova strategia di Washington non può, almeno all’inizio, essere perseguita dall’Unione Sovietica. Sia per motivi culturali, sia per l’assoluta inferiorità nucleare rispetto agli Stati Uniti. Cosicché, nei fatti, poco muta nei rapporti di forza sia su scala planetaria che su scala locale.
E poi ci sono le nuove bombe a fusione, le termonucleari: le bombe H. Molto più potenti e distruttive di quelle a fissione sperimentate a Hiroshima e Nagasaki. Gli USA l’hanno messa a punto nel 1952, grazie al fisico di origini ungheresi Edward Teller; l’URSS ha risposto nel 1953 con un ordigno di inusitata potenza messo a punto grazie all’industria aeronautica sovietica che progetta e realizza due tipi di bombardieri a largo raggio d’azione, noti in Occidente come Bison e Bear, in grado di trasportare bombe atomiche e di raggiungere gli Stati Uniti. Per la prima volta l’URSS è in grado di portare una minaccia nucleare credibile al territorio USA. Gli Stati Uniti hanno perso, nei fatti, il monopolio della minaccia nucleare. È iniziata l’era del duopolio, per quanto ancora asimmetrico.
Ed è così che anche gli strateghi dell’Armata Rossa cominciano a integrare l’arma atomica nelle strutture. E, soprattutto, nei loro piani militari. Alcuni generali rivendicano a sé stessi il compito di definire le «leggi di guerra» e iniziano a sostenere l’importanza dell’effetto sorpresa in caso di conflitto con gli Stati Uniti. In cosa consista l’effetto sorpresa, teorizzato dal maresciallo Pavel Alekseevič Rotmistrov nel 1955, è facile immaginarlo: un colpo unico e distruttivo contro il nemico portato col massimo potenziale possibile.
L’altra grande novità, sono i missili balistici intercontinentali: ICBM (InterContinental Ballistic Missile): Il primo paese a farne volare uno, nel 1957, è l’Unione Sovietica, si chiama R-7, e sarà il primo ICBM operativo della storia. Gli USA rispondono a stretto giro con i missili Atlas e Titan. Ora le due superpotenze possono attaccare dal proprio territorio quello dell’altra. In pochi minuti e senza possibilità di difesa.
Di più. La logica della rappresaglia massiccia entra a far parte anche della dottrina militare sovietica e a minacciare il mondo intero. Anche perché le nuove strategie, la sovietica e l’americana, diventeranno oltremodo realistiche quando, nel 1959, diventa operativo un nuovo prodotto della tecnologia militare: il missile balistico cosiddetto intermedio. In quell’anno, infatti, l’URSS istituisce le Forze missilistiche strategiche, quale corpo indipendente dell’Armata Rossa, e gli USA iniziano a dispiegare non solo i primi ICBM, ma anche quelli a corto raggio, Jupiter e Thor. I nuovi vettori possono essere dispiegati a terra o su sottomarini. E conferiscono all’attaccante – a entrambi gli attaccanti – la possibilità di sferrare il primo colpo, atomico, con pochi minuti di preavviso.
In poche parole: la guerra nucleare totale è diventata una tragica possibilità. E sia il pacifista Bertrand Russell che il pacifista Albert Einstein in quel febbraio 1955 ne hanno lucida consapevolezza. Per questo decidono di reagire con «qualcosa di spettacolare». Ora sembrerebbe strano che ciò che di più spettacolare riescono a immaginare quei due sia una «dichiarazione pubblica». Ma hanno ancora una volta ragione: scritta e firmata da loro la «dichiarazione pubblica» diventerà tanto famosa quanto influente e contribuirà a rendere la guerra nucleare un tabù, come scriverà lo storico Lawrence S. Wittner.
Ma andiamo con ordine. Einstein cerca di convincere alcuni fisici eminenti suoi amici. Troverete in calce i loro nomi al Manifesto che ne risulterà. Stranamente si sottrae il danese Niels Bohr, anch’egli noto per il suo pacifismo. Ma rispondono prontamente in nove. Russell, che ha una notevole capacità di scrittura, si incarica di redigere il testo. A inizio aprile è pronto e così Einstein – che, scrive Russell - «era rimasto sano di mente in un mondo pazzo» - lo può firmare: nella mattinata dell’11 aprile 1955.
Nel pomeriggio Einstein riceve Abba Eban, ambasciatore di Israele negli USA e futuro presidente dello stato ebraico. Il diplomatico gli chiede di tenere un discorso per ricordare il settimo anniversario della nascita di Israele. Einstein accetta, felice dell’esistenza di Israele ma consapevole che il filo della pace in Medio Oriente è sottile: «L’atteggiamento che adotteremo nei confronti della minoranza araba costituirà il vero banco di prova dei nostri livelli di moralità come popolo», sostiene. Il giorno dopo si reca presso il suo ufficio all’Istituto di Studi Avanzati per ampliare il discorso e proporre, ancora una volta, la creazione di un governo mondiale, unica possibilità di preservare la pace sul pianeta.
Il giorno 13 aprile è a casa, quando si sente male. Sente che è giunta l’ora. Non vuole prolungare l’agonia: «È di cattivo gusto prolungare la vita artificialmente. Ho fatto la mia parte, è ora di andare. Lo farò con eleganza», dice alla sua angosciata segretaria, Helen Dukas.
Muore in ospedale il successivo 18 aprile. Sul comodino gli ultimi appunti relativi alla sua ricerca di una teoria unificata dei campi e il foglio con l’inizio del suo discorso per l’anniversario della proclamazione dello stato di Israele: «Oggi vi parlo non come cittadino americano né come ebreo, ma come essere umano».
Quello che diventerà noto come il Manifesto Einstein-Russell viene reso pubblico due mesi dopo, il 9 luglio 1955, dall’inglese. E diventerà immediatamente il manifesto dei pacifisti impegnati a scongiurare la guerra nucleare.
Non solo dei pacifisti, in realtà. Come dice Wittner, il manifesto ha contribuito a creare una cultura diffusa – anche tra i politici, anche tra i militari – per la quale l’arma nucleare è per l’appunto un tabù. Uno strumento che al massimo può essere brandito, ma mai utilizzato. Michail Gorbaciov, in un’intervista a Wittner, sosterrà di essere stato profondamente influenzato dalle idee pacifiste di Einstein e Russell quando, nel 1987, propose al presidente americano Ronald Reagan di abolire i loro rispettivi arsenali nucleari.
Il Manifesto ebbe conseguenze pratiche immediate. È facendo riferimento a esso che, nel 1957, nacquero le Pugwash Conferences on Science and World Affairs, il cui scopo principale era (ed è) la costruzione della pace e, in particolare, il disarmo nucleare. Le Pugwash Conferences hanno ottenuto il Premio Nobel per la Pace nel 1995. A ritirare il premio fu il fisico teorico italiano Francesco Calogero, segretario generale dell’organizzazione. Oggi la carica è detenuta da un altro fisico teorico italiano, paolo Cotta-Ramusino.
Il messaggio del Manifesto, tuttavia, è ancora oggi drammaticamente attuale. Il processo di disarmo atomico tra USA e l’erede dell’URSS, la Russia, si è pressoché arrestato. Mentre nel mondo esistono altre tre potenze nucleari “ufficiali” (Cina, Francia e Regno Unito) e altre quattro “non ufficiali” (India, Pakistan, Israele e Corea del Nord).
Conviene dunque rileggerlo, quel manifesto, per trovare nuovi stimoli a perseguire l’idea che era del primo segretario generale del Pugwash (anche lui Nobel per la Pace nel 1995), Joseph Rotblat: un mondo finalmente libero dalle armi nucleari.
È un obiettivo che oggi appare lontano. Ma che è irrinunciabile per donne e uomini che, come Albert Einstein, sono «rimasti sani di mente in un mondo pazzo».
Il Manifesto Einstein-Russell
(nella versione italiana proposta da Senzatomica)
Nella tragica situazione che affronta l’umanità, noi riteniamo che gli scienziati dovrebbero riunirsi in un congresso per valutare i pericoli che sono sorti come conseguenza dello sviluppo delle armi di distruzione di massa e per discutere una risoluzione nello spirito della seguente bozza di documento.
Non stiamo parlando, in questa occasione, come membri di questa o quella nazione o continente o fede religiosa, ma come esseri umani, membri della specie umana, la cui sopravvivenza è ora messa a rischio. Il mondo è pieno di conflitti, tra cui, tralasciando i minori, spicca la titanica lotta tra Comunismo e Anticomunismo. Quasi chiunque abbia una coscienza politica nutre forti convinzioni a proposito di una di queste posizioni; noi vogliamo che voi, se è possibile, mettiate da parte queste convinzioni e consideriate voi stessi solo come membri di una specie biologica che ha avuto una ragguardevole storia e di cui nessuno di noi desidera la scomparsa.
Cercheremo di non dire una sola parola che possa piacere più ad un gruppo piuttosto che all’altro. Tutti, in eguale misura, sono in pericolo e se il pericolo è compreso, c’è speranza che lo si possa collettivamente evitare.
Dobbiamo cominciare a pensare in una nuova maniera. Dobbiamo imparare a chiederci non che mosse intraprendere per offrire la vittoria militare al proprio gruppo preferito, perché non ci saranno poi ulteriori mosse di questo tipo; la domanda che dobbiamo farci è: che passi fare per prevenire uno scontro militare il cui risultato sarà inevitabilmente disastroso per entrambe le parti?
Un vasto pubblico e perfino molti personaggi autorevoli non hanno ancora capito che potrebbero restare coinvolti in una guerra di bombe nucleari. La gente ancora pensa in termini di cancellazione di città. Si è capito che le nuove bombe sono più potenti delle vecchie e che, mentre una bomba –A potrebbe cancellare Hiroshima, una bomba‐H potrebbe distruggere le più grandi città, come Londra, New York o Mosca. Non c’è dubbio che, in una guerra con bombe‐H, grandi città potrebbero finire rase al suolo. Ma questo è uno dei disastri minori che saremmo chiamati a fronteggiare. Se tutti, a Londra, New York e Mosca venissero sterminati, il mondo potrebbe, nel corso di pochi secoli, riprendersi dal colpo. Ma ora noi sappiamo, specialmente dopo i test alle isole Bikini, che le bombe nucleari possono gradualmente spargere distruzione su di una area ben più vasta di quanto si pensasse.
Si è proclamato con una certa autorevolezza che ora si può costruire una bomba 2.500 volte più potente di quella che ha distrutto Hiroshima.
Una tale bomba, se esplodesse vicino al suolo terrestre o sott’acqua, emetterebbe particelle radioattive nell’atmosfera. Queste ricadono giù gradualmente e raggiungono la superficie terrestre sotto forma di polvere o pioggia mortifera. E’ stata questa polvere che ha contaminato i pescatori giapponesi e i loro pesci. Nessuno sa quanto queste particelle radioattive possano diffondersi nello spazio, ma autorevoli esperti sono unanimi nel dire che una guerra con bombe‐H potrebbe eventualmente porre fine alla razza umana. Si teme che, se molte bombe‐H fossero lanciate, potrebbe verificarsi uno sterminio universale, rapido solo per una minoranza, ma per la maggioranza una lenta tortura di malattie e disgregazione.
Molti avvertimenti sono stati lanciati da eminenti scienziati e da autorità in strategie militari. Nessuno di loro dirà che sono sicuri dei peggiori risultati. Quello che diranno sarà che questi risultati sono possibili, e nessuno può essere certo che non si realizzeranno. Non abbiamo ancora capito se i punti di vista degli esperti su questa questione dipendano in qualche grado dalle loro opinioni politiche o pregiudizi. Dipendono solo, per quanto ci hanno rivelato le nostre ricerche, da quanto è vasta la conoscenza particolare dell’esperto. Abbiamo scoperto che gli uomini che conoscono di più sono i più tristi. Questa è allora la domanda che vi facciamo, rigida, terrificante, inevitabile: metteremo fine alla razza umana, o l’umanità rinuncerà alla guerra?
La gente non affronterà l’alternativa perché è così difficile abolire la guerra. L’abolizione della guerra richiederà disastrose limitazioni alla sovranità nazionale. Ma probabilmente la cosa che impedirà maggiormente di comprendere la situazione sarà il fatto che il termine “umanità” suona vago e astratto. La gente a malapena si rende conto che il pericolo è per loro stessi, i loro figli e i loro nipoti, e non per una vagamente spaventata umanità. Possono a malapena afferrare l’idea che loro, individualmente, e coloro che essi amano sono in pericolo imminente di perire con una lenta agonia. E così sperano che forse la guerra con la corsa a procurarsi armi sempre più moderne venga proibita. Questa speranza è illusoria. Qualsiasi accordo sia stato raggiunto in tempo di pace per non usare le bombe‐H, non sarà più considerato vincolante in tempo di guerra, ed entrambi i contendenti cercheranno di fabbricare bombe‐H non appena scoppia la guerra, perché se una fazione fabbrica le bombe e l’altra no, la fazione che l’avrà fabbricate sarà inevitabilmente quella vittoriosa.
Sebbene un accordo a rinunciare alle armi atomiche come parte di una generale riduzione degli armamenti non costituirebbe una soluzione definitiva, potrebbe servire a degli scopi importanti. Primo, ogni accordo tra Est e Ovest va bene finchè serve ad allentare la tensione. Secondo, l’abolizione delle armi termo‐nucleari, se ogni parte credesse all’onestà dell’altra, potrebbe far scendere la paura di un attacco proditorio stile Pearl Harbour che ora costringe tutte e due le parti in uno stato di continua apprensione.
Noi dovremmo, quindi, accogliere con piacere un tale accordo sebbene solo come un primo passo. Molti di noi non sono neutrali, ma, come esseri umani, ci dobbiamo ricordare che, se la questione tra Est ed Ovest deve essere decisa in qualche maniera che possa soddisfare qualcuno, Comunista o Anti‐comunista, Asiatico o Europeo o Americano, bianco o nero, questa questione non deve essere decisa dalla guerra. Noi desidereremmo che ciò fosse compreso sia all’Est che all’Ovest.
Ci attende, se sapremo scegliere, un continuo progresso di felicità, conoscenza e saggezza. Dovremmo invece scegliere la morte, perché non riusciamo a rinunciare alle nostre liti? Facciamo un appello come esseri umani ad altri esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticatevi del resto. Se riuscirete a farlo si aprirà la strada verso un nuovo Paradiso; se non ci riuscirete, si spalancherà dinanzi a voi il rischio di un’estinzione totale.
Risoluzione:
Noi invitiamo il Congresso, e con esso gli scienziati di tutto il mondo e la gente comune, a sottoscrivere la seguente risoluzione: “In considerazione del fatto che in una qualsiasi guerra futura saranno certamente usate armi nucleari e che queste armi minacciano la continuazione dell’esistenza umana, noi invitiamo i governi del mondo a rendersi conto, e a dichiararlo pubblicamente, che il loro scopo non può essere ottenuto con una guerra mondiale, e li invitiamo di conseguenza a trovare i mezzi pacifici per la soluzione di tutti i loro motivi di contesa.”
Firmato da
Max Born W. Bridgman Albert Einstein Leopold Infeld Frederic Joliot‐Curie Herman J. Muller Linus Pauling Cecil F. Powell Joseph Rotblat Bertrand Russell Hideki Yukawa