CULTURA

Sapere, pratica e didattica dell'architettura nel Settecento veneto

È ancora possibile visitare sino al 26 febbraio prossimo a Palazzo Zuckermann la mostra Domenico Cerato. Architettura a Padova nel Secolo dei Lumi. L’esposizione intende onorare, a poco più di trecento anni dalla nascita, uno degli architetti che più e meglio hanno caratterizzato l’immagine urbana di Padova. A Domenico Cerato (1715-1792) si devono, infatti, i progetti delle principali opere architettoniche pubbliche realizzate nel corso del Settecento, strutture razionali e funzionali, che segnano ancora oggi importanti aspetti della vita civile della città: la Specola astronomica, il Prato della Valle e l’Ospedale giustinianeo. La mostra illustra l’attività di Cerato, architetto e professore, esponendo una selezione di suoi disegni originali conservati presso la Biblioteca civica, che conta un corpus di oltre 130 disegni raccolti in più album, affiancandoli con libri di architettura, vedute e dipinti che illustrano le opere realizzate.

La figura di Cerato riveste un interesse non limitato al solo ambiente patavino, ma s’inserisce nella complessa e articolata realtà dell’architettura veneta del Settecento, con un profilo che oltre le realizzazioni concrete, ispirate a sobria funzionalità e corretta pratica costruttiva, si delinea anche nel campo dell’insegnamento.

Adottato in tenerissima età dai conti vicentini Francesco Cerato Loschi e Carlina Capra, dopo gli studi presso le scuole dei Gesuiti proseguì la sua formazione prima nel seminario di Vicenza, poi presso il seminario di Padova, ottenendo quindi l’ordinazione sacerdotale nel 1738. Non è chiaro il momento preciso in cui Domenico iniziò a interessarsi attivamente di architettura né quale tipo di formazione specifica abbia avuto, tuttavia datano alla fine degli anni quaranta le prime attestazioni concrete della sua attività progettuale. Contemporaneamente apriva una scuola di architettura, la quale sembra accogliere esigenze manifestate dalle élite culturali dei territori della Repubblica di fronte alla mancanza di studi specifici sul costruire. Certo è che già in questi primi anni entra in contatto con le principali personalità attive in campo architettonico in Veneto, come il marchese Giovanni Poleni e l’architetto Giorgio Massari.

Il 1765 segna una data fondamentale nella carriera dell’abate Domenico Cerato: è l’anno in cui l’amico Giuseppe Toaldo fu incaricato della cattedra di “Astronomia e meteore” presso lo Studio di Padova. Sarà proprio Toaldo a coinvolgerlo come progettista nella realizzazione dell’Osservatorio astronomico. Da quel momento Cerato si stabilì definitivamente a Padova e, grazie al ruolo nell’importante cantiere pubblico, iniziò a ricevere numerosi incarichi professionali. Sarà, così, di volta in volta coinvolto per pareri e progetti su importanti cantieri pubblici, come quelli, ad esempio, relativi alle cupole della basilica di San Marco; per la basilica del Santo; per la Camera della città a Padova; per l’Orto agrario. Soprattutto consoliderà i vincoli di amicizia e committenza con influenti personaggi del patriziato veneto riformatore come Girolamo di Sebastiano Giustinian, Sebastiano Foscarini e, soprattutto, Angelo Querini e Andrea Memmo. 

Val la pena sottolineare, in questa occasione, come l’ateneo di Padova conservi importanti documentazioni relative all’opera e alla vita di Domenico Cerato, non solo perché egli fu l’architetto che curò la trasformazione della Torlonga dell’antico castello carrarese in Osservatorio astronomico, ma anche in quanto negli ultimi decenni della sua vita svolse un’intensa e importantissima attività didattica. Nel 1769, infatti, i capi delle corporazioni coinvolte nei cantieri edilizi - “marangoni, murari e tagliapietra” - constatando che i loro colleghi “spogli di principi di scienza deformano, o rendono imperfette e poco durevoli le loro opere, con sommo danno, ed intollerabile dispendio di chi le commette” chiedevano ai Riformatori allo studio, la magistratura composta da tre senatori veneziani responsabile dell’istruzione in tutti i territori della Repubblica, l’istituzione di una scuola retta da “un pratico Maestro di Architettura che … insegnasse colle giuste regole”, in grado di fornire adeguata preparazione tecnica alle maestranze intermedie di cantiere. Fu così che, nel 1771, fu aperta una Scuola pratica di architettura diretta da Domenico Cerato e indirettamente collegata allo studio di Padova, laddove il docente di matematiche Simone Stratico presiedeva agli esami finali.

Ecco dunque che l’archivio dell’ateneo conserva all’interno del fondo antico una rilevante serie di documenti appartenuti a Cerato: carteggi, polizze, descrizioni di lavori e perizie. Una documentazione fondamentale per comprendere l’opera dell’architetto.

Un secondo importantissimo lascito è di carattere bibliografico e si conserva presso il Fondo antico del dipartimento di Ingegneria civile edile e ambientale. Domenico Cerato, infatti, possedeva una fornitissima raccolta di testi di architettura che aveva iniziato a collezionare sin da giovane. Era una biblioteca costituita da un gran numero di testi, antichi e moderni, che dimostrano una notevole attenzione per la cultura europea e non soltanto architettonica. Nel 1784 decise di donare tutta la collezione alla scuola di architettura e di qui pervennero poi nelle collezioni dipartimentali odierne.

Un’ultima traccia direttamente collegata alla figura di Cerato, questa volta in veste di committente, si cela all’interno delle stanze dell’università di Padova. Si tratta di due busti in pietra oggi conservati nella sala della “cucina anatomica” al Bo: uno ritrae Andrea Palladio, l’altro Vincenzo Scamozzi. Le due sculture furono eseguite nel 1776 dallo scultore Francesco Androsi, com’è stato accertato proprio in occasione degli studi per la mostra e pubblicato nel catalogo edito da Skira che l’accompagna. In origine erano posti sull’ingresso dell’aula utilizzata dalla scuola di architettura pratica presso la Specola. La commissione dei busti sembra così sancire il coronamento di un sogno pedagogico da tempo perseguito da Cerato e inteso a riformare le pratiche tradizionali dell’edilizia corrente avviandole sulla strada tracciata dai maestri. 

Si tratta, ad ogni buon conto, di un’interessante testimonianza dell’interesse per l’effigie palladiana che proprio a metà Settecento si afferma e che proprio in questi giorni è raccontata nella mostra:  Andrea Palladio. Il mistero del volto, visitabile sino a giugno al Palladio Museum di Vicenza.

Stefano Zaggia

I busti di Andrea Palladio e di Vincenzo Scamozzi. Foto: Massimo Pistore

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