SCIENZA E RICERCA

La stella “magnete” e la fisica del vuoto

È uno dei “Magnifici Sette”, ma nulla ha a che fare con il film degli anni Sessanta diretto da John Sturges. Si tratta invece dell’oggetto celeste RX J1856.5-3754, per dirla in gergo tecnico, una stella di neutroni che fa parte dell’omonimo gruppo osservata recentemente da un team di ricerca internazionale di cui anche l’università di Padova fa parte. Lo studio (Evidence for vacuum birefringence from the first optical polarimetry measurement of the isolated neutron star RX J1856.5−3754) ha consentito per la prima volta di dimostrare una previsione di 80 anni fa sulla fisica del vuoto: la polarizzazione della luce osservata suggerisce infatti che lo spazio vuoto intorno alla stella di neutroni subisca un effetto quantistico noto come birifrangenza del vuoto.

Le stelle di neutroni sono i resti molto densi di stelle massicce, almeno 10 volte più massicce del Sole, esplose come supernove al termine della loro vita. Hanno anche un campo magnetico estremo, miliardi di volte più forte di quello del Sole, che permea la loro superficie esterna e i dintorni. Questi campi sono così forti che influenzano anche le proprietà dello spazio vuoto intorno alla stella. E, per quanto riguarda la propagazione della luce, danno luogo a un effetto noto appunto come birifrangenza del vuoto, previsto negli anni Trenta del Novecento da Hans Heinrich Euler ma fino a questo momento tutto ancora da dimostrare. 

Per capire di che cosa si tratta si pensi a un fascio di luce bianca che attraversa un prisma e viene decomposto nei vari colori, perché la luce di diversi colori si propaga nel vetro con velocità diverse. Allo stesso modo iniettando un fascio di luce nel vuoto magnetizzato, questo si divide in due fasci dopo aver percorso una distanza molto breve. Qualcosa di molto simile avviene, ad esempio, in un cristallo di calcite. Ma come è possibile questo (si sarebbe portati a pensare) se lo spazio in questione, il “vuoto” magnetizzato, non contiene nulla? La fisica quantistica in realtà prevede che il “vuoto” sia popolato da coppie “virtuali” particella-antiparticella, nel caso in esame elettrone-antielettrone. A causa della presenza di un campo magnetico molto intenso, queste coppie di particelle si “materializzano”. Una volta diventate reali, la radiazione elettromagnetica può interagire con esse dando luogo al fenomeno descritto.  

“Perché questo effetto sia misurabile – spiega Roberto Turolla del dipartimento di Fisica e astronomia “Galileo Galilei” dell’università di Padova, parte del gruppo di ricerca insieme a Roberto Taverna dello stesso dipartimento – il campo magnetico deve essere davvero enorme, dell'ordine di 100 miliardi di volte quello di un comune magnete come quello che si usa per attaccare le note sul frigorifero. Campi magnetici così forti non possono essere prodotti nei nostri laboratori e si trovano solo nelle vicinanze delle stelle di neutroni, i magneti più potenti nel nostro universo”. Solo l'osservazione della luce che ci arriva dalla superficie di una stella di neutroni dopo aver attraversato il vuoto magnetizzato che la circonda può mostrare l'effetto.

Gli scienziati hanno osservato la stella di neutroni in luce visibile con lo strumento Fors2 installato sul Very Large Telescope (Vlt) dell’European Southern Observatory (Eso), al limite delle possibilità tecnologiche attuali dei telescopi e hanno rilevato polarizzazione lineare, a un livello elevato di circa il 16% - la polarizzazione è una proprietà che descrive la direzione in cui oscillano il campo elettrico e magnetico delle onde elettromagnetiche. “L'elevato grado di polarizzazione lineare – sottolinea Roberto Mignani dell’Inaf-Iasf di Milano coordinatore del gruppo di ricerca – misurato con il Vlt non può essere facilmente spiegato dai nostri modelli a meno di includere gli effetti di birifrangenza del vuoto”.  

Nell’ambito dell’indagine Roberto Turolla e Roberto Taverna hanno calcolato i modelli teorici con cui poi sono stati confrontati i dati raccolti che hanno permesso di ricavare la forte evidenza del fenomeno della birifrangenza.  “Sarebbe interessante condurre questo tipo di studi – osserva Turolla – anche per altri oggetti e in altre bande dello spettro elettromagnetico, dato che queste stelle emettono molto più in raggi X rispetto a quanto emettono nell’ottico (e dunque risulterebbero più brillanti)”. Le osservazioni nei raggi X infatti sono risultate importanti per comprendere molti processi legati alle pulsar, alle supernove, ai buchi neri. I raggi X però non penetrano l’atmosfera e questo rende necessario eseguire le misure di polarizzazione servendosi di un satellite. In questo momento esistono due progetti in fase avanzata per un satellite di questo tipo, Xipe dell’Esa e Ixpe (The Imagining X-ray Polarimetry Explorer) della Nasa, e eXTP (enhanced X-ray Timing and Polarimetry Mission) della Chinese Academy of Sciences proposto più recentemente. “L’università di Padova – sottolinea Turolla – è profondamente coinvolta in tutti e tre questi studi. Il nostro gruppo sta lavorando infatti con gli altri partner italiani (diversi istituti dell'Inaf, dell'Infn e di altri atenei) alla progettazione e messa a punto di questi satelliti  che tra meno di dieci anni potrebbero consentirci di ripetere in raggi X la stessa misura che oggi è stata effettuata in luce visibile, ottenendo in questo modo una ulteriore conferma al fenomeno della birifrangenza”. 

M. Pa. 

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