SOCIETÀ

I telefonini e le start-up non ci salveranno dalla crescita zero

L’Italia continua a essere in stagnazione e il Jobs Act non ha certo modificato il quadro. Forse il problema non sta però nel mercato del lavoro italiano e nelle sue regole ma in una questione di lungo periodo che riguarda tutte le economie mature, cioè quelle dei paesi di più antica industrializzazione: i ritmi di crescita del dopoguerra non torneranno più. L’economista Tyler Cowen nel suo libro The Great Stagnation: How America Ate All the Low-Hanging Fruit of Modern History, Got Sick, and Will (Eventually) Feel Better usa una metafora per descrivere la fase attuale: “Ci siamo mangiati i frutti che stavano sui rami bassi dell’albero”. In altre parole, le nostre economie non crescono perché le fasi di rapida crescita degli anni Cinquanta e Sessanta erano l’eccezione e non la regola: in quell’epoca abbiamo goduto i frutti delle cose semplici da fare (ferrovie, autostrade, meccanizzazione, elettrodomestici), ora trovare nuove ricette per rilanciare l’economia è difficile, nonostante Internet.

Sulla stessa linea Robert Gordon, un economista della Northwestern University, che ha scritto un libro massiccio, The Rise and Fall of American Growth (Princeton University Press, 2016) per andare a fondo del problema: queste sono le sue principali conclusioni.

A suo parere, il progresso della produzione negli Stati Uniti ha conosciuto la sua stagione migliore fra il 1920 e il 1970. Da allora c’è stato un tendenziale rallentamento. Dopo il 2,4% di crescita media annua del 1920-1970 e l’1,8% del 1970-2014 Gordon prevede che fino al 2040 il tasso d’incremento del Pil reale medio per persona sarà di circa lo 0,8% l’anno. Naturalmente, il problema cruciale è la produttività, alimentata dalle innovazioni. Nel periodo 1920-1970 il prodotto per ora lavorata negli Stati Uniti crebbe del 2,8% l’anno, ritmo quasi doppio rispetto all’1,5% del 1890-1920 e all’1,6% del 1970-2014.

L’aumento annuale della produttività totale dei fattori, TFP, fu rapido negli anni Trenta (+1,8%) e ancor di più negli anni Quaranta (+3,4%), grazie agli aumenti salariali, all’accorciamento della giornata lavorativa e allo sforzo formidabile della macchina bellica americana. Le imprese risposero con l’innovazione alla spinta proveniente dal costo del lavoro. Risposero con una maggiore intensità di capitale (spesso finanziato dal governo) e con beni strumentali innovativi, che incorporavano “large increases in horsepower and kilowatt-hour of electricity usage per dollar of equipment capital”. Le due grandi invenzioni della seconda Rivoluzione industriale a fine Ottocento (il motore a scoppio e l’elettricità)  espressero il loro immenso potenziale solo a distanza di decenni, in particolare durante la seconda guerra mondiale: se nel 1942 ci volevano otto mesi per assemblare una nave da trasporto Liberty, nel 1943 bastavano poche settimane. La Ford riuscì ad allestire gli impianti per i bombardieri B-24 in appena un anno e riuscì a produrne oltre 400 al mese nell’agosto del 1944.

Nel dopoguerra le previsioni di ristagno della domanda globale avanzate furono clamorosamente smentite: alla spesa militare provocata dalla guerra fredda si affiancò la spesa civile: automobili, cucine elettriche e a gas, frigoriferi, lavatrici, lavapiatti, radio, televisori. La dinamica degli aumenti di produttività restò elevata (1,5% l’anno, in media). Il grande rallentamento coincise con la crisi  degli anni Settanta e il punto chiave della ricostruzione di Gordon è il fatto che le  grandi invenzioni del passato non sono state sostituite da un comparabile progresso tecnico dopo il 1970. I gadget di cui ci riempiamo le case, dai telefonini agli iPad, non hanno sull’economia lo stesso effetto trascinante che ebbero l’elettricità e il motore a scoppio. 

Gordon parte dalla celebre osservazione del premio Nobel Robert Solow: “You can see the computer age everywhere but in the productivity statistics”. A suo parere, la cosiddetta terza Rivoluzione industriale “has been less broad in its scope than before, focused on entertainment and information and communication technology (ICT), and the standard of living and working conditions have advanced at a slower pace than before 1970”. 

Gordon rileva che negli Stati Uniti la Produttività totale dei fattori è aumentata solo dello 0,6% l’anno fra il 1970 e il 1994 perché l’informatica ha cominciato a dispiegare i suoi effetti su larga scala soltanto con l’arrivo di Internet, dei motori di ricerca, e dell’e-commerce nel decennio 1994-2004: questo produsse un vero cambiamento della produzione, distribuzione e consumo (p. 576).

Ma, questo è il punto più interessante e controverso del lavoro di Gordon, la moderata accelerazione della produttività americana fu seguita da un nuovo rallentamento dopo il 2004 perché le innovazioni hanno investito solo una sfera limitata delle attività umane: non si sono estese agli acquisti del cibo, del vestiario, delle automobili e del loro carburante, dei mobili, degli elettrodomestici: “A pedicure is a pedicure regardless of whether the customer is reading a magazine (as would occur a decade ago) or reading a book on a Kindle or surfing the web on a smartphone” (p. 578).

Sul futuro dell’innovazione negli USA Gordon è pessimista: il lavoro negli uffici non cambia. Gli smartphone sono usati dagli impiegati in ufficio per distrarsi e il commercio elettronico non arriva al 7% delle vendite al dettaglio. Gordon rovescia le tesi degli autori ottimisti sulla tecnologia ma pessimisti sull’occupazione, come Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee nel loro libro The Second Machine Age: Work, Progress, and Prosperity in a Time of Brilliant Technologies, (Norton, New York, 2014).

Queste considerazioni sono alla base della previsione di crescita del reddito mediano per persona disponibile al netto delle imposte negli Stati Uniti appena dello 0,3% l’anno da qui al 2040, un aumento drammaticamente inferiore non solo al 2,25% del periodo 1920-1970, ma anche all’1,46% del 1970-2014. Se Gordon ha ragione, l’appuntamento con la Casa bianca di populisti come Donald Trump è soltanto rinviato.

Fabrizio Tonello

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