Neutralità carbonica, ovvero zero emissioni nette: in inglese net zero. Un obiettivo da raggiungere entro il 2050 per evitare l’innalzamento della temperatura media della Terra di 2 gradi entro la fine del secolo, ma che impone un generale ripensamento della nostra economia, finora fondata sulle fonti di energia fossili. Costi enormi a fronte di benefici incerti e soprattutto futuri, ovvero collocati in quel “lungo periodo” che facciamo fatica a immaginare perché, chiosava John Maynard Keynes, “saremo tutti morti”.
Per questo oggi più che sul fronte scientifico – dove quasi nessuno ormai dubita dell’origine antropica dei cambiamenti climatici – la partita si gioca soprattutto sul terreno dell’economia e della politica. La transizione green spegnerà definitivamente i sogni della crescita infinita, di una società sempre più ricca e prospera, oppure si tratterà di una nuova rivoluzione industriale piena di opportunità? Quali saranno i costi, e come andranno ripartiti? A queste domande tenta di rispondere Net Zero, il libro appena pubblicato da Il Mulino scritto da Lorenzo Forni, docente di economia all'università di Padova.
Un libro ecologista e anche ecologico, dato che i proventi finanziano il progetto Bosco 800, la raccolta fondi ideata dall’Università di Padova per riforestare otto ettari di terreno danneggiati dalla tempesta Vaia, alle pendici del Monte Zebio nel comune di Asiago. “Mi sono avvicinato al problema un po' per caso, quando sono stato coinvolto nel 2018 in un progetto di ricerca della Banca mondiale: avevano bisogno di un macroeconomista che riflettesse sulle dinamiche del debito pubblico in relazione alla transizione climatica – spiega Forni a Il Bo Live –. All'inizio faticavo persino ad orientarmi con la terminologia, poi mi sono reso conto che l'accordo di Parigi ha già cambiato molte cose e che non solo i governi ma anche la finanza hanno iniziato a muoversi: nel 2022 ad esempio la Bce ha svolto una prova di stress sul rischio climatico sulle principali banche europee”. La necessità di approfondire la questione ha portato l’economista innanzitutto alla conclusione che prima o poi dovremo arrivare all’azzeramento delle emissioni, e in secondo luogo che la catastrofe può essere ancora evitata; c’è insomma ancora un po’ di tempo e buona parte delle tecnologie di cui abbiamo bisogno sono già disponibili: i problemi sono soprattutto il come e la volontà politica.
Con il piano REPowerEU nel 2022 la Commissione Europea ha ribadito l’impegno di ridurre le emissioni del 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, rendendo il continente net zero nel 2050 come sancito dalla European Climate Law del 29 luglio 2021. Attraverso la missione Climate Neutral and Smart Cities l’Ue ha inoltre deciso di rendere net zero 100 città, nove delle quali italiane (Bergamo, Bologna, Firenze, Milano, Padova, Parma, Prato, Roma e Torino). Dal canto negli Stati Uniti l’amministrazione Biden ha annunciato entro la stessa data una riduzione del 50-52% rispetto al 2005 e ha inoltre approvato l’ambizioso Inflation Reduction Act, che contiene numerosi incentivi alla produzione domestica di tecnologie pulite come il solare, l’eolico, la cattura del carbonio e l’idrogeno verde.
Eppure un po’ dappertutto la transizione green assieme ai plausi suscita anche perplessità e talvolta anche una convinta opposizione da parte di cittadinanza e mondo economico. Provvedimenti europei come quello sull’efficientamento delle abitazioni private e il divieto di vendita per le nuove auto a benzina e diesel nell'Ue (a partire dal 2035) hanno fatto parlare di suicidio economico e industriale, i cui frutti potrebbero essere colti soprattutto dalla Cina. “La teoria economica ci insegna che quando le azioni degli agenti economici producono delle esternalità, cioè degli effetti negativi sugli altri, come nel caso delle emissioni, si generano una serie di comportamenti subottimali – scrive Lorenzo Forni in Net Zero –. Gli individui, come le imprese, non hanno incentivi a ridurre le emissioni perché non ne traggono alcun beneficio diretto, e anzi devono affrontare i costi per ridurle”. In questi casi prevale dunque l’atteggiamento del cosiddetto free riding: si lascia agli altri l’onere di agire, aspettando di lucrare sui benefici che i loro comportamenti genereranno anche per noi.
“Il problema è che non abbiamo tanto tempo, al massimo una decina d’anni, e trasporti e riscaldamento sono una componente rilevante di quei circa 50 miliardi di tonnellate di gas serra che produciamo ogni anno – continua lo studioso nella sua intervista a Il Bo Live –. C’è bisogno di un cambiamento di mentalità, iniziando dai cosiddetti low hanging fruits, le cose che si possono fare facilmente. È vero che in Italia viviamo in molti in città antiche: magari non ha molto senso fare il ‘cappotto’, ma sarebbe già utile cambiare ad esempio le caldaie a gasolio e a gas in pompe di calore alimentate con fonti rinnovabili”. In diversi Stati dell’India ad esempio ci si è resi conto che è più conveniente aiutare i privati a montare i pannelli solari piuttosto che spendere nell’acquisto di idrocarburi e nella realizzazione di grandi centrali. Anche industria e mercati stanno insomma cambiando paradigma, e i più svegli si stanno già attrezzando per il futuro, senza dovere per forza rinunziare alla crescita. “La questione non è abbassare consumi continuando a inquinare, ma continuare a consumare senza emissioni – conclude Forni –. Anche perché, se magari in Occidente abbiamo un po’ di margine per la decrescita, sarebbe comunque assurdo tentare di convincere miliardi di indiani e cinesi a non migliorare il loro stile di vita”.
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C’è insomma tanto da riflettere e da fare, ma oggi l’Italia in particolare appare indietro: “Il cosiddetto Piano Nazionale Integrato per l'Energia e il Clima 2030 (PNIEC) è del 2019 e non tiene conto degli ultimi documenti internazionali ed europei, inoltre abbiamo speso miliardi per incentivi piuttosto inefficaci per il superbonus e per sostenere il consumo di gas e benzina, mentre siamo al palo sulle rinnovabili. Sarebbe utile una legge italiana sul clima sull’esempio di quella europea, che introduca principi come quello del Do not significant harm, secondo il quale qualsiasi misura non deve avere un impatto negativo sull'ambiente. E sarebbe utile anche un Climate Council, un ente indipendente come ad esempio l’ufficio parlamentare di bilancio, che facesse da punto di riferimento per l'elaborazione normativa e per il controllo del rispetto degli obiettivi in ambito ambientale”. Nulla è ancora perduto insomma, ma tutto deve essere guadagnato palmo a palmo, comprese molte delle cose che oggi ci sembrano normali, come muoverci autonomamente in automobile e prendere l’aereo.
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