SOCIETÀ

La vera malattia è la paura

“In Italia dilaga la ‘sindrome di Salgari’. Gli operatori socio-sanitari interessati alla problematica degli immigrati sono convinti del rischio d'importazione di malattie tropicali”. Era il 29 novembre 1995 quando Adnkronos lanciava la notizia. Da alcuni anni erano iniziati i primi flussi migratori e il timore di malattie ritenute lontane come aids, malaria, tbc e parassitosi si insinuava nel tessuto sociale. Oggi, a distanza di tempo, quelle convinzioni sembrano non essere ancora del tutto scomparse, sebbene i dati epidemiologici vadano in un’altra direzione.   

Si comincia a parlare di medicina delle migrazioni a partire dalla metà degli anni Ottanta. Si discute sul rischio di importazione di malattie infettive. Tanto che proprio in quegli anni l’allora ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, istituisce per la prima volta una commissione ministeriale per affrontare il tema della salute di chi decideva di spostarsi nel nostro Paese. “Eppure – spiega in un incontro tenutosi di recente a Padova Andrea Rossanese, che da anni si occupa di medicina dei viaggi e delle migrazioni nel centro per le malattie tropicali all'ospedale “Sacro Cuore” di Negrar a Verona – chi decide di spostarsi in realtà è chi sta meglio. Parte chi ha più possibilità di riuscita nel processo migratorio, che spesso vede nell’integrità fisica la condizione per inserirsi in un mercato di lavori rifiutati dagli italiani perché rischiosi e particolarmente faticosi”. È la cosiddetta “teoria del migrante sano” che prevede un’autoselezione già in partenza.

Certo non si può negare che storicamente le migrazioni siano state il veicolo di diffusione di determinate malattie. Durante la conquista dell’America, solo per citare qualche esempio, i bianchi portarono il vaiolo, il morbillo, l’influenza. E dall’America i conquistatori “importarono” la sifilide. Quando gli schiavi neri furono deportati nelle Americhe vi diffusero la febbre gialla. Ai nostri giorni tuttavia, scriveva già nel 2006 Salvatore Geraci allora presidente della Società italiana di medicina delle migrazioni, si deve considerare che si possiedono i mezzi preventivi e di sorveglianza necessari per affrontare eventuali situazioni critiche e che in genere emigra chi è più sano nel fisico. È invece durante il viaggio che il migrante corre il rischio maggiore di ammalarsi. “Lo straniero – argomenta Rossanese – non muore di malattia infettiva. Muore di freddo, muore annegato. Muore perché qualcuno nella stesso barcone lo picchia a sangue”.

Per dare un’idea più concreta, cita uno studio coordinato da Tullio Prestileo che, con il suo gruppo, ha monitorato la coorte di migranti sbarcati a Lampedusa tra l’11 aprile e il 7 settembre 2011. Su 24.861 persone, l’85% era di età compresa tra i 18 e i 30 anni e il 90% erano maschi. Il 21% proveniva dalla Nigeria, il 19% dal Ghana, il 17% dalla Costa d’Avorio. Ebbene, sul totale, 184 persone sono state trasferite in ospedale in particolare per problemi legati alla sfera riproduttiva nelle donne (80 casi), come gravidanze a termine o aborti, o nei maschi per malattie neuropsichiatriche (29 casi di cui 23 tentati suicidi) e infettive. Complessivamente le diagnosi di malattie infettive nei migranti sono state 66 su 24.861. Nello specifico, 21 persone avevano la tubercolosi, 13 l’epatite B, otto la scabbia e cinque la malaria. Le patologie legate al percorso migratorio, invece, costituivano il 23%. “Alla luce di questa esperienza – concludono i medici – appare inconfutabile la teoria del ‘migrante sano’ che, nella stragrande maggioranza dei casi, parte dalla propria terra in buona salute. Spesso, però, capita che a causa delle condizioni socio-economiche e sanitarie in cui viene a trovarsi, si ammala e perde l’elemento di maggiore forza e investimento per la propria vita”.

Chi arriva nel nostro Paese, infatti, si trova spesso a vivere nelle stesse condizioni in cui “vivevano i nostri nonni” negli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta del Novecento. Anni in cui era molto diffusa la tubercolosi. In Italia i migranti abitano in case malsane, umide, fredde e sovraffollate. I più fortunati, sottolinea Rossanese, riescono a mangiare una volta al giorno. Le malattie che contraggono sono legate all’emarginazione e alla povertà. Il medico ricorda il caso di una bambina vietnamita di cinque anni, adottata e sottoposta a una visita medica al suo arrivo in Italia, cui fu diagnosticata la scabbia. “La scabbia – argomenta il medico – è una malattia causata da un acaro che si infila nella pelle dove completa il suo ciclo vitale. È una ‘patologia del degrado’ di cui soffrono ad esempio i barboni, ma anche le persone anziane che vivono da sole e non riescono più a curarsi. Nella mia esperienza ho visto più casi di scabbia tra gli autoctoni che tra gli immigrati”.

Se invece volessimo parlare di malaria, va detto che in Italia manca la zanzara che fa da vettore, o meglio esistono le ultime popolazioni autoctone in Toscana e Sardegna che tuttavia non sono in grado di trasmettere la malattia africana. I dati epidemiologici che Rossanese illustra per il nostro Paese risalgono agli anni 2008-2009 e indicano un elevato numero di casi tra gli stranieri. Dunque timori fondati? In realtà no, se si considera che la maggior parte di questi sono ‘rientri in patria’, cioè immigrati che da tempo vivono in Italia e che tornano per brevi periodi in visita al proprio Paese da amici e parenti, senza però valutare che “non sono più africani nel loro sistema immunitario”. 

“I numeri dimostrano che è molto facile smontare la tesi del migrante come veicolo di malattie – continua Rossanese –. La questione piuttosto dovrebbe essere valutata da un altro punto di vista. Si dovrebbe riflettere cioè sul fatto che se noi medici non siamo in grado di riconoscere alcune malattie che gli immigrati potrebbero avere perché tipiche dei loro Paesi, la situazione potrebbe diventare molto pericolosa per loro”. Che di quelle patologie potrebbero anche morire. Ancora una volta il medico guarda alla sua esperienza clinica e porta l’esempio di un operaio ghanese di 38 anni in terapia per un linfoma. Guarito dal linfoma sviluppa una strongiloidiasi disseminata, una malattia tipica delle aree tropicali e subtropicali, che tuttavia non si riesce a stroncare in tempo per la mancanza in Italia del farmaco necessario, l’Ivermectina. Stesse considerazioni per la malattia di Chagas, diffusa in America Latina: un boliviano su quattro è portatore del trypanosoma cruzi, il parassita che causa la malattia. E molti non ne sono nemmeno a conoscenza. Cosa potrebbe accadere in caso di donazione di sangue o di trapianto? Nel nostro Paese lo screening per questo tipo di patologia non è previsto in modo sistematico.    

“Se si considera la globalizzazione dei viaggi e delle migrazioni, è necessario ragionare in un’ottica di multidisciplinarietà – conclude il medico – che ponga al centro la salute globale. Così come si è iniziato a fare ad esempio al centro di salute globale della regione Toscana”. Una multidisciplinarietà dunque che passi attraverso la conoscenza della storia dell’umanità, attraverso la formazione, l’antropologia, l’economia, la politica, la sanità pubblica. E soprattutto che sposti la cultura al di sopra del pregiudizio.

Monica Panetto

 

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012