SCIENZA E RICERCA

Affinità elettroniche: Bell aveva ragione (forse)

Ogni mattina mi sveglio, mi lavo, mi vesto e scelgo dal mio cassetto un paio di calzini. Poi vado a lavorare, e passo la mia giornata in studio e in laboratorio tra i colleghi. Ultimamente, però, mi è capitato di notare una strana coincidenza: tutte le volte che scelgo i calzini di un certo colore, c’è un mio collega che li porta esattamente della stessa tinta. Se scelgo quelli rossi, anche lui li ha rossi, se li scelgo viola, li ha viola anche lui. Com’è possibile? So che esce di casa prima di me, quindi non può chiamare mia moglie per farsi dire cosa indosso. Neppure, può cercare di sapere il piano calzini della settimana, perché li scelgo a caso ogni mattina. Certo che questa è una coincidenza, o meglio, una correlazione bizzarra e sembrerebbe che esista una specie di telepatia.

La cosa però non sarebbe affatto strana se il mio collega e io fossimo delle particelle quantistiche, come degli elettroni o dei fotoni. Correlazioni di questo tipo si sono osservate e, anzi, sono alla base degli studi delle future tecnologie quantistiche – certo, gli elettroni non portano calzini, quindi si fa uso di alcune loro proprietà fisiche. Per esempio, quel che accade è che ciascun elettrone si comporta come una microscopica trottolina che può ruotare su se stesso intorno a una certa direzione in senso orario oppure antiorario, una proprietà detta spin. Si possono creare delle correlazioni quantistiche tra elettroni – chiamate entanglement – tali che, se misuriamo lo spin in una direzione sul primo elettrone, lo ritroviamo identico sul secondo e questo per una scelta qualsiasi della direzione. Ma come è possibile che accada?

Le spiegazioni che sono state date sono due: la prima è quella standard e dice che lo spin non è mai veramente determinato prima che si vada a misurarlo. È come se i miei calzini non avessero un colore definito prima che qualcuno li guardi. Solo a quel punto prendono un colore definito e, istantaneamente, si colorano anche quelli del mio collega di un colore identico al mio. Trovare un’immagine semplice è molto complicato perché questo va contro la nostra esperienza quotidiana: siamo abituati al fatto che i calzini abbiano lo stesso colore quando sono nel cassetto, ai piedi o in lavatrice (forse un po’ meno dopo una lavatrice), ma questa loro proprietà fisica è indipendente da se e da come li si osserva. Per le particelle microscopiche, sembrerebbe che non sia così e non si può parlare delle loro caratteristiche fino a quando non specifico esattamente in che condizioni li osservo: è come dire che nel cassetto i calzini possono essere blu oppure rossi, ma se li avessimo guardati dentro lavatrice, gli stessi calzini sarebbero potuti essere verdi oppure gialli.

La seconda spiegazione, quella preferita da Einstein, è che deve esistere un meccanismo nascosto che crea il collegamento tra i calzini, per quanto complesso o improbabile, che però non ammetta che il colore dei calzini venga ‘creato’ solo al momento in cui tiro su i pantaloni per mostrarli ai colleghi. È come ammettere l’ipotesi che il mio collega giri con la borsa piena di calzini, chiami mia moglie e se li cambi sull’autobus pur di averli del mio stesso colore. Oppure che la paghi per indirizzare la mia scelta sul colore che lui ha scelto già. Nel caso degli atomi, invece, questo vorrebbe dire che la teoria che la descrive, la meccanica quantistica, ha una falla: manca proprio la parte che ci permette di spiegare e predire queste correlazioni senza fare uso del fatto che lo spin viene determinato solo al momento dalla misura. L’elettrone “sa” come girare in modo che sia sempre allineato con il suo compagno, ma noi ancora no.

Chi ha ragione? Come raramente accade, esiste davvero un esperimento suggerito dal fisico John Bell in grado di distinguere le due ipotesi. In modo semplificato si procede così: si guardano gli spin di due elettroni che sono legati da entanglement e scriviamo 1 se li troviamo concordi, altrimenti scriviamo -1; poi facciamo la media di tutti i risultati, per varie scelte di direzione. Se la media è più alta di 0.71, allora possiamo dire che sicuramente la seconda spiegazione è sbagliata. Come abbiamo accennato sopra, si trovano dei valori molto vicini a 1, quindi il dibattito dovrebbe essere chiuso. A essere onesti, non proprio.

Le condizioni che ha posto Bell richiedono che i due elettroni debbano essere molto lontani – in modo che non ci sia nessun segnale sconosciuto che possa passare dall’uno all’altro alla velocità della luce – e che non si faccia una scelta su quali elettroni osservare oppure no. Siccome verificare entrambe queste condizioni è molto complicato nello stesso esperimento, si è fatto l’assunto che le cose tornino anche se gli elettroni sono molto vicini oppure se si hanno oggetti lontani – e in questo caso si sono impiegati fotoni, particelle di luce, invece degli elettroni – ma molti vanno perduti. Si chiamano ipotesi supplementari che sembrano ragionevoli, ma possono dare origine a scappatoie per il test di Bell, vale a dire teorie, anche molto complicate, che possono far rivivere la seconda spiegazione.

Sembrerebbe che le cose siano state chiarite una volta per tutte grazie a un bellissimo esperimento eseguito da una grande collaborazione tra gruppi olandesi, spagnoli e inglesi. Per la prima volta è stato eseguito un test di Bell che non fa ricorso a ipotesi supplementari e mostra chiaramente che non sono permesse scappatoie. Questo è una conferma della meccanica quantistica cercata fin dagli anni Settanta e resa possibile solo grazie al continuo sviluppo nel controllo e nella manipolazione degli oggetti microscopici. Gli elettroni sono intrappolati dentro delle impurezze nel diamante e sono stati tenuti a una distanza di più di un chilometro. Come sono state create, però, le correlazioni necessarie all’entanglement? Per fare questo, si è impiegata la luce emessa dall’elettrone: è come se si fossero create due coppie entangled fotone-elettrone e poi si fosse trasferito l’entanglement al sistema elettrone-elettrone.

Bisogna osservare però che i risultati sono stati solo annunciati e non sono ancora apparsi su una rivista dopo una revisione paritaria, ma già ci sono stati commenti entusiasti da parte della comunità e c’è anche chi si è sbilanciato a dire che qualcuno degli autori potrebbe nei prossimi anni ricevere il Nobel per aver dimostrato una volta per tutte che la natura alle volte si comporta in maniera strana. Anche se, in fondo, questo lo intuivamo già.

Marco Barbieri

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012