SCIENZA E RICERCA

Aids, l’equivoco fatale dell’Europa

È un bel paradosso. Nella giornata che celebra la lotta all’Aids, l’Oms celebra i continui progressi contro la malattia: nel mondo, negli ultimi 15 anni le nuove infezioni sono calate del 35% e le morti del 24%. In perfetta contemporanea, l’ufficio regionale dell’Oms per l’Europa ci informa che l’anno scorso, nella sua area di competenza (Europa, Israele, ex Jugoslavia, Turchia, ex Urss) ci sono stati oltre 142.000 nuovi casi di Hiv, il numero più alto mai registrato in un anno. Il dato più preoccupante è quello della Russia, passata progressivamente dai 35.401 nuovi casi del 2005 agli 85.252 del 2014 (un incremento di oltre il 140% in dieci anni); e se, in generale, sono i Paesi ex sovietici a mantenere i più alti tassi di nuove infezioni, l’Unione Europea non riesce a regredire: i dati specifici forniti dall’Oms (relativi alla sola Ue più Norvegia e Islanda) mostrano una sostanziale stabilità nell’ultimo decennio. Nel 2005 i nuovi casi erano 29.129 (un tasso pari a 6,7 per centomila abitanti); nel 2014, anche a causa dell’incremento di popolazione, diventano 32.605. Ma ciò che lascia stupiti è il tasso di infezioni, pari nel 2014 a 6,4: appena lo 0,3 in meno di dieci anni prima.

Come si spiega che a casa nostra la battaglia contro l’Aids segni il passo? Lo abbiamo chiesto a Sara Richter, la studiosa dell’università di Padova che da anni conduce ricerche d’avanguardia sulla possibilità di aggredire direttamente il Dna del virus Hiv: una strada che potrebbe portare, in futuro, alla prima terapia in grado di sradicare la malattia dall’organismo. “Purtroppo in Europa la cultura della prevenzione sta riducendosi”, spiega. “Siccome i farmaci attualmente garantiscono una speranza di vita vicina a quella delle persone sane, si sta facendo largo l’idea che l’Aids sia meno pericolosa. E poi oggi è possibile assumere un’unica pillola, quindi la terapia è più semplice da seguire. Non si dice che in realtà le medicine sono sì essenziali, ma presentano effetti collaterali importanti e dimostrati; inoltre i farmaci risultano inefficaci se si interrompe per breve tempo, anche per errore, l’assunzione, oppure in caso di mutazioni del virus. Dunque le medicine sono fondamentali, ma non bastano”. Per la Richter è rischiosa la raccomandazione, che pure alcune autorità formulano, che le persone sane ma appartenenti a categorie a rischio  (è il caso, per esempio, di chi si prostituisce o dei tossicodipendenti) assumano i farmaci retrovirali come misura preventiva: “Si rischia di far passare il messaggio che il proprio stile di vita non sia un fattore decisivo, e di conseguenza non occorra adottare precauzioni nei comportamenti. Un’illusione di immunità che non tiene neppure conto del fatto che alcune malattie sessualmente trasmissibili rendono il corpo più vulnerabile all’Hiv”. Di qui il minore allarme, la percezione di minor pericolo: la conseguenza è che se ne parla molto meno (nella giornata dedicata all’Aids nessuno dei grandi quotidiani ne tratta in prima pagina) e che i giovani sono meno coscienti del problema, e quindi aumentano i rapporti non protetti (gli ultimi dati indicano che anche in Europa moltissimi sieropositivi ignorano il proprio stato fino alla diagnosi di Aids: le conseguenze, sia per sé che per la collettività, sono pesantissime).

Ma come procedono le ricerche del gruppo guidato da Sara Richter? “Abbiamo raggiunto ottimi risultati”, racconta la scienziata, “individuando il ruolo della nucleolina, una proteina che svolge una funzione chiave nella “disattivazione” del virus Hiv, agendo sulla sua struttura genetica. Inoltre stiamo studiando alcuni farmaci selettivi in grado di agire sul Dna del virus, che sembrano efficaci anche a basse concentrazioni: presto inizieremo la sperimentazione su cavie”. La Richter però manifesta una preoccupazione: alcuni importanti centri di finanziamento stanno concentrando le forze sullo studio dei vaccini, trascurando le ricerche sulle terapie. È la posizione, ad esempio, della Fondazione Gates, che del gruppo padovano è stata tra i sostenitori. “Sicuramente la ricerca sui vaccini è fondamentale”, conclude Sara Richter: “Non dimentichiamoci, però, che disporre di un vaccino non significa debellare una patologia, come dimostra il caso della poliomielite. Bisogna sempre puntare a una terapia definitiva”.

Martino Periti

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