CULTURA

Canzoni come poesie

"Ma bella più di tutte è l’isola non trovata, quella che il Re di Spagna s’ebbe da suo cugino, il Re di Portogallo, con firma suggellata e bulla del pontefice in gotico latino". Quante volte l’abbiamo pensato, ascoltandola: è bella come una poesia. La verità è che per comporre L’isola non trovata Francesco Guccini “preleva tutta la prima quartina e molti rilevanti sintagmi dalla poesia di Gozzano (La più bella, ndr), il che rende riconoscibilissima la fonte mentre per il titolo della canzone usa un frammento del primo verso della poesia”, spiega Francesco Ciabattoni ne La citazione è sintomo d’amore. Cantautori italiani e memoria letteraria (Carocci editore), libro che analizza - con un rigore che, considerato l’argomento, un po’ spiazza - alcune canzoni di famosi cantautori incrociando le opere in musica con la tradizione poetica più alta. Guccini cita volentieri “frammenti di versi, menziona i nomi dei poeti o li evoca con perifrasi”: è la fine degli anni Sessanta e nella famosa Dio è morto il cantautore emiliano riprende alcuni elementi dalla traduzione italiana di Urlo di Ginsberg proponendo lo stesso attacco della poesia: “Ho visto”. Ne L’isola non trovata, invece, fa una scelta che determina una differenza sostanziale rispetto all’opera di Gozzano per il quale “l’isola esiste indubbiamente, mentre nella canzone di Guccini è un miraggio sfuggente che non si può raggiungere in quanto nessuno sa se c’è davvero”.

Dalla parola scritta di romanzi e poesie alla parola cantata in grado di regalare emozioni e ispirare intere generazioni di italiani. Il Novecento ha visto numerose collaborazioni tra poeti e cantanti, da Pasolini e Sergio Endrigo, per Il soldato di Napoleone, fino a Roberto Roversi e Lucio Dalla. I cantautori hanno incrociato spesso la letteratura, proponendo citazioni colte ora facilmente individuabili ora più nascoste e sfruttando tecniche diverse a seconda dello stile, delle esigenze e del gusto personale: dalle rielaborazioni testuali agli innesti di frammenti letterari in grado di mescolarsi naturalmente col testo della loro canzone. Le tecniche di scrittura di Vecchioni, Guccini, Branduardi, De André, De Gregori e Baglioni vengono prese in esame da Ciabattoni, Associate Professor of Italian alla Georgetown University di Washington Dc, che ne analizza gli esiti: “Il risultato è quello di una canzone il cui significato è nuovo ma indipendente da quello del testo d’origine. Il genere canzone d’autore è autonomo e non ha bisogno di essere paragonato alla poesia o ad altre forme di letteratura scritta per giustificare la propria dignità estetica, ma le intertestualità presentate mettono in discussione la capacità della canzone d’autore di fare a meno di una tradizione letteraria sullo sfondo della quale possa proiettare le proprie forme e il proprio significato”. E continua: “Se reminiscenze e imitazioni (le prime possono essere inconsapevoli da parte dell’autore, le seconde l’autore può desiderare che passino inosservate) costituiscono un livello superficiale di dialogo intertestuale, le allusioni nascoste lanciano invece un messaggio preciso, e innescano un gioco di riconoscimenti con il lettore-ascoltatore. La citazione è in genere una mossa più scoperta, universalmente riconoscibile, spesso un omaggio all’autore citato”.

Se i cantautori - si legge nel libro – riconoscono esplicitamente un debito, un prelievo o un riferimento, di solito lo fanno con ironia e nonchalance. La tecnica di Vecchioni e Guccini consiste nel mettere in luce l’elemento importato dal testo di origine: dalla citazione dei nomi degli scrittori nei titoli delle canzoni all’inserimento nei propri testi di versi talmente noti da saltare subito all’occhio. Questa pratica citatoria crea un distacco netto tra il testo in musica e la citazione in esso contenuta, che vi viene apposta come un emblema. Ma se Vecchioni e Guccini usano una tecnica compositiva simile, giocando a carte scoperte, Baglioni sfrutta l’innesto prelevando tessuto testuale da Pasolini, Garcia Marquez, Morante e Luzi; De Gregori “presenta evocazioni e rimandi letterari difficilmente percepibili a orecchio nudo ma talvolta di grande rilevanza per il significato della canzone”, mentre De André tende a esportare singole parole non sempre facili da rintracciare, “tessere testuali altrui per costruire un suo discorso”.

Nel 1991 il mio amico Vittorio Bo mi regalò un romanzo di Alvaro Mutis, “La neve dell'ammiraglio”, che trovai semplicemente straordinario. Allora cominciai a divorare tutti gli altri suoi scritti, e quando arrivai alla raccolta di poesie “Summa di Maqroll. Il Gabbiere” presi il coraggio a quattro mani: gli domandai se avesse nulla in contrario a che mi appropriassi di qualche pezzo pregiato della sua sterminata gioielleria per incastonarlo in una canzone che avevo in mente. In questo modo è nata “Smisurata preghiera”, e devo confessare che mai parto fu tanto soddisfacente (F. De André).

Branduardi sceglie una strada ancora diversa e, in questo senso, è forse il caso più interessante perché la sua ricerca arriva lontano. Alla fiera dell’est, il suo album forse più famoso, è ricco di allusioni e rielaborazioni testuali che guardano a culture, tradizioni e fiabe popolari poco (o per nulla) conosciute dal lettore/ascoltatore medio: il risultato è originale e unico perché traduzione e adattamenti del testo vengo accompagnati da arrangiamenti e un’interpretazione molto personali. Si scopre, quindi, che la stessa canzone che dà il titolo all’album è un adattamento dal canto Chad Gadyoh (anche chiamato Chad Gadyah o Had Gadyah) associato alla pasqua ebraica, con l’unica variazione del topolino in sostituzione di un capretto. E ancora, il brano La pulce d’acqua è ispirato a un racconto indiano (“è stata la pulce acquatica che ha rubato l’ombra di quell’uomo ammalato”) e Il vecchio e la farfalla trae origine dal saggio cinese di Chuang-Tzu, ripreso anche da Borges, che “espone in chiave fiabesca la secolare domanda esistenziale sulla conoscibilità del reale, il sospetto che il mondo non sia che il sogno di un sognatore”.

Francesca Boccaletto

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