SCIENZA E RICERCA

Il clima, dopo Marrakech e dopo Trump

Lui, Donald Trump, il presidente eletto degli Stati Uniti d’America, non c’era. Né poteva esserci. Ma la sua ombra ha dominato a Marrakech in Marocco i lavori di COP 22, la ventiduesima Conferenza delle Parti che hanno sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, che si sono conclusi venerdì scorso, 18 novembre.

COP 21 ha raggiunto gli obiettivi che si era prefisso: riaffermare la validità del Paris Agreement e fissare qualche paletto per la sua concreta realizzazione. L’Accordo di Parigi, a sua volta, era stato confezionato su pressione del presidente uscente degli Stati Uniti, Barack H. Obama, proprio per neutralizzare gli effetti dell’elezione di Donald Trump, climate-denier, negazionista convinto dei cambiamenti climatici. Eppure l’ombra del magnate americano è riuscita ad aggirare la blindatura e a penetrare nella Conferenza. Certo, non ne ha modificato il risultato, ampiamente scontato. Ma ha generato una serie di domande su due temi correlati che riguardano tutti noi da vicino: il futuro della politica energetica mondiale e dei tentativi di contrastare il climate change.

Quella di Marrakech passerà probabilmente alla storia come la COP delle raggiunte certezze formali e delle insorgenti incertezze sostanziali. Per capire perché, dobbiamo fare qualche passo indietro e risalire al 1992, quando a Rio de Janeiro viene varata la Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti del Clima. In pratica, tutti i paesi del mondo prendevano atto di una minaccia – i cambiamenti del clima accelerati dall’uomo – e si impegnavano, almeno moralmente, a cercare di sventarla. In realtà, a Rio nel 1992 si riconoscevano anche delle precise responsabilità: sono state i paesi di più antica industrializzazione negli ultimi due secoli a immettere in atmosfera la gran parte dell’anidride carbonica e degli altri gas (definiti gas serra) che ne ha modificato la composizione chimica provocando un aumento della temperatura media. È in virtù di questo riconoscimento di responsabilità che i paesi di antica industrializzazione firmarono, cinque anni dopo, il Protocollo di Kyoto, con il quale si impegnavano a limare le loro emissioni di gas serra (del 5%, in media) rispetto a un livello di riferimento: le emissioni antropiche del 1990.

Gli Stati Uniti non ratificarono il Protocollo di Kyoto, su pressione molto forte delle industrie legate allo sfruttamento dei combustibili fossili. La motivazione avanzata era che, ormai, paesi di nuova industrializzazione, come la Cina, stavano aumentando in maniera significativa le loro emissioni e gli USA non potevano concedere loro un vantaggio competitivo. O tutti si impegnano a contenere le emissioni o gli Stati Uniti non muoveranno un dito.

Intanto negli Stati Uniti (e non solo) si andavano organizzando dei gruppi di climate-deniers, di persone, tra cui alcuni scienziati, che negavano l’esistenza dei cambiamenti climatici o, in ogni caso, la responsabilità umana su questi cambiamenti.

Nel corso degli anni la comunità scientifica internazionale ha portato prove sempre più univoche e convincenti sul fatto che il climate change è reale ed è causato dalle attività umane. In primo luogo dall’uso dei combustibili fossili. Nello stesso tempo si è venuta consolidando anche la volontà politica di contrastarli, questi cambiamenti, considerati indesiderabili per via dei loro effetti: aumento dei fenomeni meteorologici estremi, bombe di calore e bombe d’acqua, aumento del livello dei mari, diminuzione dei ghiacci, forti perturbazioni degli ecosistemi, spinta a nuovi fenomeni di migrazione.

Di questa nuova consapevolezza e di questa volontà si è fatto interprete il presidente Barack Obama, ribaltando la politica tradizionale degli Stati Uniti e trasformando il suo paese da vagone piombato in locomotiva del treno mondiale allestito dalle Nazioni Unite per contrastare il climate change. Da un punto di vista politico, Obama ha puntato ed è riuscito a trovare un accordo con la Cina. Dal punto di vista istituzionale ha contribuito a confezionare il Paris Agreement, raggiunto a COP 21 nella capitale francese all’inizio di dicembre 2015.

Un accordo blindato. I cui punti salienti sono questi: i paesi aderenti si impegnano a cercare di contenere l’aumento della temperatura media del pianeta entro i 2 °C – e, possibilmente, entro 1,5 °C – rispetto all’era pre-industriale. Questo significa un drastico taglio delle emissioni da parte dei paesi di antica industrializzazione, ma anche un limite all’aumento delle emissioni dei paesi di nuova industrializzazione prima che anche loro procedano a un drastico taglio.

In soldoni significa che il mondo si impegna a un cambio di paradigma della sua politica energetica con il phase out dai combustibili fossili e la promozione di fonti di energia rinnovabili e carbon free. Inoltre i paesi più ricchi si impegnano a mobilitare, a regime, 100 miliardi di dollari l’anno per aiutare i più poveri a contrastare il climate change.

Da un punto di vista formale, l’accordo diventerà effettivo quando sarà ratificato da almeno 55 paesi responsabili di almeno il 55% delle emissioni (è la soglia cosiddetta 55/55). Una volta che un paese l’avrà ratificato – ecco la blindatura – non potrà rivedere i suoi impegni prima del 2020. Che, forse non a caso, è la data di scadenza di questo nuovo mandato presidenziale negli USA. In pratica significa che, se non sarà rieletto, Donald Trump non potrà denunciare il Paris Agreement.

Con uno sforzo congiunto con Pechino, lo scorso mese di settembre Obama ha ratificato l’accordo di Parigi. E poiché Usa e Cina da soli sono responsabili del 39% delle emissioni globali, è bastata la ratifica di pochi altri paesi per superare la soglia 55/55 e rendere l’accordo operativo.

Per consolidare all’interno la propria posizione, Barack Obama ha lanciato il Clean Power Plan, con cui gli Stati Uniti si impegnano a tagliare del 26-28% le proprie emissioni entro il 2025 rispetto ai livelli del 2005 e a spegnere tutte le proprie centrali a carbone entro il 2020.

Eccoci, dunque, giunti alla COP 22 che si è chiusa a Marrakech il 18 novembre scorso con risultati magari non eclatanti, ma certamente attesi: i 196 paesi partecipanti hanno stabilito che entro il 2018 dovrà essere approvato il regolamento per l’attuazione del Paris Agreement, il cui scopo principale è definire i Nationally Determined Contributions, ovvero i modi trasparenti con cui i singoli paesi misureranno le loro emissioni di gas serra. Inoltre a Marrakech è stata ribadita la volontà di creare, entro il 2020, il Green Climate Fund, il fondo che a regime dovrà trasferire 100 miliardi l’anno ai paesi poveri per aiutarli a contrastare i cambiamenti climatici.

Ma se tutto è andato come previsto, perché l’ombra di Trump avrebbe perturbato i lavori di Marrakech? Beh, il motivo è semplice. Perché la politica può svuotare di contenuti anche i più stringenti accordi giuridici. E la politica annunciata da Trump punta in maniera clamorosa proprio in questa direzione.

In campagna elettorale Trump ha sostenuto che il climate change non è un fatto reale, ma un’invenzione mediatica propugnata dalla Cina per attaccare l’industria americana. E che, pertanto, lui non riconosce né il Paris Agreement né i suoi obiettivi, per cui, una volta eletto presidente, avrebbe adottato una politica energetica fondata sullo sviluppo dei combustibili fossili di cui gli USA sono ricchi.

Le prime mosse di Trump, in questa fase di transizione prima del 20 gennaio 2017, quando assumerà la pienezza dei poteri del presidente, sembrano indicare una conferma di questa posizione. Ha, per esempio, dato incarico di gestire la fase di transizione verso il 20 gennaio in fatto di clima all’economista e analista politico Myron Ebell, direttore del Global Warming and International Environmental Policy di quel Competitive Enterprise Institute fondato da un’industria petrolifera, la ExxonMobil con una mission precisa: negare il climate change o, almeno, le sue cause antropiche. Myron Ebell è quello che si definisce un climate-denier. Mentre il candidato principale a guidare il Department of Energy (DOE) pare sia Harold Hamm, amministratore delegato della Continental Resources, un’azienda impegnata nello sviluppo di gas e petrolio che la tecnica del fracking. Insomma, un uomo che non solo crede e teorizza ma opera attivamente per l’espansione dei combustibili fossili.

L’intenzione di Trump sembra, allo stato, evidente. Ma cosa potrà fare, concretamente? Formalmente nulla: fino al 2020 dovrà rispettare il Paris Agreement. Tuttavia, politica degli annunci a parte, potrà svuotarlo di contenuti. Per esempio ritirando il Clean Power Plan o negando di fatto di pagare le quote per gli aiuti ai paesi in via di sviluppo.

L’ombra di Trump ha dunque trasformato Marrakech in un fallimento? Molti analisti sono convinti del contrario. Per due motivi, essenzialmente. La locomotiva americana è solo una di quelle a disposizione del treno contro il climate change. Il ritiro sostanziale degli Stati Uniti non significherebbe il simmetrico ritiro della Cina. Al contrario, molti prevedono che Pechino non si lascerà sfuggire l’occasione, politica oltre che economica, per imporsi come leader mondiale della green economy, magari cercando e ottenendo il sostegno dell’Europa.

Inoltre, dicono in molti, potrebbe essere proprio il mercato a tradire Trump. Oggi, infatti, anche senza vincoli normativi le tecnologie per le fonti rinnovabili sono in fase crescente e trainante, mentre stanno declinando le costose e comunque inquinanti fonti fossili, in particolare il carbone.

La Cina e il mercato salveranno, dunque, il Paris Agreement dagli attacchi di Trump? È troppo presto per dirlo. Probabilmente la lotta ai cambiamenti climatici sta entrando in una nuova fase al rallentatore proprio mentre gli scienziati chiedono un’accelerazione. La temperatura media del pianeta è già aumentata di 1 °C rispetto a quella dell’era pre-industriale e la concentrazione di anidride carbonica in atmosfera, dicono i dati relativi al 2016, è già stabilmente oltre le 400 ppm (parti per milioni), mentre per restare entro gli 1,5 °C indicati a Parigi come soglia massima da non valicare non dovrebbe superare le 350 ppm.

Pietro Greco

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