SOCIETÀ

Compiti a casa per il nuovo Presidente

L’ultimo episodio è quello che ha coinvolto alcune delle banche popolari più grandi, costrette a trasformarsi in società per azioni. Una riforma di cui si parlava da anni: dove sono le ragioni di “necessità ed urgenza” richieste dalla Costituzione per autorizzare il governo a emanare un decreto-legge (il n. 3 del 24/01/2015), assieme a tutte le altre misure che compongono il cosiddetto Investment Compact?

Né si tratta di un caso unico o isolato. Sempre con decreto legge, poi convertito, è stata approvata la prima parte del Jobs Act ( il cosiddetto “decreto Poletti”), mentre per la riforma della pubblica amministrazione è in discussione una legge-delega. Il principio rimane teoricamente lo stesso: Un testo diventa legge statale (ci sono anche quelle regionali) con l’approvazione dai due rami del Parlamento. Di fatto però oggi gran parte della normativa, spesso la più importante, non viene più emanata con legge ordinaria, secondo una procedura che dovrebbe garantire il massimo della trasparenza e del coinvolgimento dei parlamentari e dell’opinione pubblica.

I numeri sono chiari: nel 2012, secondo i dati del Rapporto 2013 sulla legislazione a cura dell’Osservatorio sulla legislazione della Camera dei Deputati, assieme a 32 decreti-legge e 52 decreti legislativi, sono state emanate 101 leggi ordinarie. Di queste ben 29 (il 28,7%) erano a loro volta leggi di conversione di precedenti decreti legge; se togliamo le leggi di ratifica di trattati internazionali e quelle di bilancio, troviamo che le leggi che hanno avuto un normale iter parlamentare sono state appena 37. Poco più di cinquant’anni fa, nel 1962, erano 363: l’83,1% dei testi approvati. Un’evoluzione che risulta ancora più evidente se si guarda alle dimensioni dei testi legislativi approvati. Nel 2012 la normativa prodotta ha raggiunto una lunghezza di 2.621.251 caratteri (spazi esclusi): circa due volte I promessi sposi, più una Divina Commedia e lo spazio per un’altra opera minore. Di questi oltre la metà, il 50,59%, era contenuta in leggi di conversione di decreti-legge e appena il 30,44% nelle altre leggi ordinarie, non di ratifica o di bilancio, contro il 92,11% del 1962.

Oggi insomma la gran parte della produzione legislativa viene dal governo, che può intervenire anche imponendo il voto di fiducia, mentre sempre più spesso i parlamentari sono costretti a lavorare su documenti preparati in altre sedi. Non proprio quello che avevano in mente i padri costituenti. “Prendiamo l’art. 77 della Costituzione, che regola i decreti-legge – spiega la costituzionalista Lorenza Carlassare  –. Il senso è chiaro: i costituenti pensavano a un rimedio eccezionale per situazioni assolutamente imprevedibili, come terremoti e disastri naturali. Nella prassi invece siamo arrivati a decine di decreti-legge ogni anno. E meno male che la Corte Costituzionale ha almeno vietato la loro reiterazione!”. Discorso analogo per l’abuso dei decreti legislativi, con i quali il governo viene investito del compito di legiferare: “L’art. 76 detta condizioni precise: nelle leggi delega devono essere determinati in maniera precisa i principi e i criteri direttivi, che spesso invece sono indicati in maniera vaghissima”. Il risultato è allarmante: “In questo modo il governo in pratica sottrae di fatto al Parlamento la potestà legislativa”.

“Certo il bicameralismo paritario non aiuta nella velocità degli iter parlamentari – continua Carlassare – ma la verità è che quando le leggi interessavano davvero al governo, come quelle sul falso in bilancio o sulle rogatorie internazionali, queste sono state fatte in tempi brevissimi. Perfino la riforma costituzionale del 2005, poi bocciata dal referendum, fu approvata molto velocemente. La verità è che spesso oggi manca nelle compagini governative un disegno politico chiaro e preciso”.

In particolare, sempre secondo l’Osservatorio, nelle ultime legislature la decretazione d’urgenza è diventata il canale principale non soltanto per le decisioni di breve periodo, ma anche per quelle che investono periodi medio-lunghi. Una scelta ‘strategica’ dovuta al fatto che si tratta di uno strumento normativamente e mediaticamente più forte: “è relativamente semplice da adottare, entra in vigore subito, costringe il Parlamento ad occuparsene, si impone all’attenzione dei mass media, mostra la rapidità con cui il governo si fa carico dei problemi”. Un percorso che inizia verso la fine degli anni Settanta, in un periodo segnato da crisi economica e dall’emergenza del terrorismo, e dura fino ai giorni nostri, dove un quadro politico frammentato si accompagna alla necessità del governo di far fronte agli impegni presi a livello europeo e internazionale.

Il risultato è un parlamento sempre più emarginato, condannato a un ruolo sempre più simbolico, un po’ come i monarchi nelle odierne monarche costituzionali. “Oggi per limitare le discussioni si fanno addirittura leggi con un solo articolo, composto di decine di commi. A mio modo di vedere si tratta di un ulteriore segno di disprezzo per la democrazia: non solo i parlamentari non ce li fanno scegliere, ma li fanno anche votare alla cieca”. I rimedi? “Si possono migliorare i regolamenti parlamentari, in particolare sul ruolo della commissioni. Il problema vero però, rifletteva già Livio Paladin, è che l’abuso della decretazione d’urgenza e del voto di fiducia sono spesso i segni di un governo debole, che non si fida nemmeno della sua maggioranza”. Una situazione che si ricollega alla crisi della politica: “I partiti non sono più partiti, bensì formazioni leggere dove decidono solo i vertici”, conclude la costituzionalista. “Questo però non corrisponde alla previsione dell’art. 39, in cui il soggetto primario sono i cittadini. I partiti politici dovrebbero servire alla trasmissione delle nostre idee, oggi però questo meccanismo appare inceppato”.

Daniele Mont D’Arpizio

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