SOCIETÀ
Bernanke: l’altra faccia della meritocrazia
Ben Bernanke. Foto: Doug Mills/The New York Times/Re/contrasto
La parola “meritocrazia” fu creata nel 1958 dal sociologo inglese Michael Young nel suo libro The rise of the meritocracy, 1870-2033: An essay on education and inequality. L’intento satirico nel tempo si è perduto e oggi “meritocrazia” ha assunto un significato unicamente positivo. Una riflessione controcorrente su questo tema è arrivata dal discorso del presidente della banca centrale degli Stati Uniti, Ben Bernanke, alla cerimonia di laurea della Princeton University il 2 giugno 2013. Ne pubblichiamo un estratto.
Qualsiasi cosa la vita abbia in serbo per voi, ognuno di voi ha un grandioso progetto che vi accompagnerà per tutta la vita: lo sviluppo di voi stessi come esseri umani. La vostra famiglia, i vostri amici e i vostri anni a Princeton vi hanno dato un buon punto di partenza. Cosa ne farete? Continuerete a imparare e a pensare in modo critico sulle questioni più importanti? Diventerete una persona più forte, più generosa, più affettuosa, più etica? Parteciperete più attivamente e più costruttivamente al mondo che vi circonda? (…)
Il concetto di successo mi porta a considerare la cosiddetta meritocrazia e le sue implicazioni. Ci hanno insegnato che le società e le istituzioni meritocratiche sono eque. Lasciando da parte il fatto che nessun sistema, incluso il nostro, è veramente, completamente, meritocratico, le meritocrazie possono effettivamente essere più eque e più efficienti rispetto ad alcune alternative. Ma sono eque in senso assoluto? Riflettete. La meritocrazia è un sistema in cui a ottenere i riconoscimenti maggiori sono le persone più fortunate dal punto di vista della salute e del patrimonio genetico; più fortunate in termini di sostegno, incoraggiamento e, probabilmente, reddito familiare; più fortunate nelle loro opportunità di formazione e carriera; e fortunate in tanti altri modi difficili da elencare. L’unico modo in cui una meritocrazia anche solo presunta potrebbe sperare di passare un esame etico ed essere considerata equa, è che tutti coloro che hanno avuto più fortuna abbiano anche più responsabilità nel lavorare sodo, nel contribuire al miglioramento del mondo e condividano la loro fortuna con gli altri. Come recita il vangelo di Luca (e il mio rabbino sicuramente mi perdonerà se cito il Nuovo Testamento per una buona causa): “A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più” (Luca, 12,48). (…)
Chi è degno di ammirazione? L’ammonimento di Luca – condiviso, tra l’altro, dalla maggior parte delle tradizioni etiche e filosofiche – ci aiuta anche in questo caso. Chi merita più ammirazione è chi ha sfruttato al meglio i propri vantaggi, oppure affrontato con più coraggio le avversità. Concordiamo tutti, credo, nel ritenere chi non ha studiato ma lavora con onestà e impegno per mantenere la sua famiglia sia degno di maggior rispetto di chi ha ottenuto successi più superficiali. Ed è anche più divertente berci una birra insieme, ammettiamolo.
(…) Non vi dirò che il denaro non conta, perché tanto non mi credereste. E infatti per troppe persone in giro per il mondo il denaro è letteralmente una questione di vita o di morte. Ma se fate parte della fortunata minoranza che può scegliere, ricordate che il denaro è un mezzo, non un fine. Scegliere una carriera basandosi sul denaro e non sull’amore per il lavoro o il desiderio di “fare la differenza” è la ricetta per l’infelicità.
A nessuno piace sbagliare, ma gli errori sono una parte essenziale della vita e dell’educazione. Se non vi siete sporcati, vuol dire che non avete mai giocato.