CULTURA

Boris Pahor e il vizio della memoria

Chiunque abbia visto almeno una volta Boris Pahor – e non sono pochissimi, data la disponibilità e il frenetico attivismo di questo coriaceo centenario – non farà fatica a riconoscerne la coerenza, l’ostinazione e a tratti l’asprezza in Figlio di nessuno, l’autobiografia pubblicata recentemente da Rizzoli. A chi scrive capitò di incontrarlo giusto un anno fa, in occasione dell’uscita del volume La lirica di Edvard Kocbek, con cui l’Università di Padova pubblicava a distanza di 65 anni la tesi di laurea del suo illustre studente, più volte candidato al Nobel per la letteratura. Non fu un incontro facile. Per quasi due ore il roccioso triestino tenne il punto puntualizzando ogni parola, ogni concetto, correggendo più volte l’interlocutore.

Non cerca simpatie Boris Pahor, tantomeno dagli italiani. Egli è un testimone, scomodo, di uno dei tanti rimossi dell’Italia democratica e repubblicana: quello della repressione della popolazione slava durante il Ventennio. Ancora oggi un argomento difficile da trattare: troppo profonda la diffidenza reciproca, troppo vive e dolorose le memorie di tante famiglie triestine, istriane e dalmate. “Gente senza lingua né civiltà”, “cimici”: così erano chiamati dai giornali fascisti i cittadini di lingua e cultura slovena o croata, e il termine ricorre molte volte nel libro, quasi un sigillo rimasto impresso nell’animo di chi allora era solo un bambino. Nelle pagine la storia personale di Pahor, cittadino italiano e massimo autore vivente in lingua slovena, si intreccia con le vicende più tragiche del secolo scorso: le angherie subite già nelle scuole, per il semplice fatto di non riuscire a esprimersi in italiano, il Narodni dom, la casa di cultura slovena il cui incendio nel 1920 segnò uno dei primi atti dello squadrismo fascista, e che ritorna anche nel suo libro Il rogo nel porto. E poi la guerra come soldato nel regio esercito, la partecipazione alla resistenza e infine la deportazione in campo di concentramento. Da quest’esperienza di morte e di annientamento Pahor riuscirà a trarre l’ispirazione per Necropoli, l’opera che lo farà conoscere al grande pubblico tedesco e francese e che spingerà Claudio Magris ad annoverarlo tra i grandi della “letteratura dello sterminio”, accanto a Primo Levi e al premio Nobel Imre Kértesz. Una storia che tocca anche Padova, dove lo scrittore si laurea in lettere e conosce Diego Valeri: proprio ai consigli del poeta  l’autore attribuisce il merito di avergli salvato la vita nel lager, dove la pur piccola padronanza della lingua francese gli permette di lavorare come interprete e infermiere.

Non c’è comunque solo la Storia con la esse maiuscola in questo libro, scritto in collaborazione giornalista del Sole 24 Ore Cristina Battocletti: in esso lo scrittore triestino per la prima volta si mette completamente a nudo. Emerge il ritratto di una vita completamente consacrata alla missione di intellettuale: “la fedeltà alla macchina da scrivere” che, ammette, lo ha portato a trascurare la famiglia. È comunque un Pahor diverso e più privato quello che si scopre, che a tratti lascia il piglio severo del testimone e indulge nel ricordo dei suoi amori e delle sue perdite, come quella della moglie Rada, spentasi nel 2009. Il ricordo del campo di concentramento torna però persino nel rapporto con i morti: «Da quando sono tornato dal campo mi sembra ridicolo e insensato intrattenersi davanti a una tomba perché i morti non possono godere della presenza di chi va a fare loro visita. Tutto quello che si può fare è in vita» (p. 188). La vita è una, e va spesa completamente nella lotta per le cause giuste: è questo il senso dell’ultimo capitolo del libro. «Oggi il mio testamento di uomo laico va ai giovani perché ricordino di proteggere quella scintilla di speranza per la giustizia che noi deportati abbiamo preservato nel buio dei lager e che abbiamo continuato ad alimentare fino ad oggi, pur amareggiati dall’oblio del nostro sacrificio. Oggi quella scintilla va a voi, giovani, che la possiate far rivivere in luce accecante». (p. 222)

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La memoria di Boris

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