SCIENZA E RICERCA

Bussare al cervello per misurare la coscienza

In stato vegetativo dal 2006 a causa di un’emorragia cerebrale, Ariel Sharon ex primo ministro israeliano qualche mese fa avrebbe reagito ad alcuni stimoli. La voce del figlio, le fotografie della sua fattoria. Nessun miglioramento secondo i medici che l’hanno in cura, ma i figli sono convinti che il padre si trovi in realtà in uno stato di “minima coscienza”. Distinguere le due condizioni cliniche non è sempre facile e nel 40% dei casi si commettono errori di diagnosi, dalla quale tuttavia dipende il conseguente trattamento terapeutico. 

Oggi un passo avanti viene dalla ricerca che propone uno strumento in grado di misurare il livello di coscienza in pazienti incapaci di comunicare con l’ambiente esterno attraverso il proprio corpo (cerebrolesi, in stato vegetativo, di minima coscienza). Lo studio è stato recentemente pubblicato su Science translational medicine e presentato in questi giorni all’università di Padova su iniziativa del dipartimento di salute della donna e del bambino. 

Si tratta di un metodo che fonda le proprie radici teoriche sul modello dell’“informazione integrata”. Una teoria che, a distanza di anni da quando è stata proposta (agli inizi del 2000), ha ricevuto solo ora per la prima volta una dimostrazione empirica. “Fino a questo momento – sottolinea Marcello Massimini, docente del dipartimento di scienze biomediche “L. Sacco” dell’università degli studi di Milano e coautore dello studio – la teoria aveva avuto solo dimostrazioni qualitative. Ora invece siamo riusciti a elaborare una scala numerica che riesce a misurare la complessità del dialogo tra le diverse aree cerebrali e dunque il livello di coscienza”. 

La teoria dell’informazione integrata, di cui il docente parla anche in un libro divulgativo a quattro mani con Giulio Tononi dal titolo Nulla di più grande  edito quest’anno da Baldini e Castoldi, si fonda su due principi di base, e cioè che la coscienza possiede un elevato contenuto di informazioni differenziate, ma allo stesso tempo collegate tra loro, integrate. Un po’ come un’orchestra: un insieme di strumenti musicali differenti che insieme suonano un’unica melodia. Maggiore è la complessità delle relazioni tra le informazioni, maggiore è lo stato di coscienza. Dal punto di vista neurofisiologico ciò deriva dalla capacità del sistema talamo-corticale di interagire rapidamente ed efficacemente come un tutto integrato. Ed è proprio su questo sistema che si va ad agire per misurare il livello di coscienza.

Con un forte stimolo magnetico (stimolazione magnetica transcranica) si attiva una risposta cerebrale che viene misurata con elettroencefalogramma: in pratica si bussa al cervello e se ne ascolta l’eco. I risultati ottenuti vengono espressi in un file binario che riassume l’attività spazio-temporale del cervello, cioè la risposta delle diverse aree cerebrali allo stimolo in relazione al tempo. “A questo punto – spiega Massimini – l’idea è stata di ‘zippare’ il file: tanto maggiore è la complessità della risposta cerebrale, dunque le relazioni tra le informazioni, tanto meno si riuscirà a comprimerle”. Il metodo ha consentito di individuare un “indice di complessità perturbativo” che rappresenta il livello di coscienza (perturbational complexity index, pci) e si colloca in una scala numerica normalizzata, da 0 (il livello più basso di coscienza) a 1 (il più alto). 

I ricercatori hanno condotto lo studio in soggetti sani, durante il sonno e sotto anestesia, e in pazienti usciti dal coma a vari livelli di coscienza (dallo stato vegetativo ai locked-in, perfettamente coscienti, ma incapaci di rispondere agli stimoli con il corpo). L’indagine ha dimostrato che in soggetti sani e svegli il livello di coscienza (pci) si colloca sopra lo 0.4, mentre nelle persone in fase di sonno profondo (NRem) e sotto anestesia, privi dunque di coscienza, si ottengono valori inferiori. Gli stessi valori, inferiori allo 0.4, si ottengono nei pazienti in stato vegetativo, mentre nei soggetti in stato di minima coscienza l’indice è superiore. È immediatamente evidente che il metodo elaborato possa dunque diventare una discriminante importante ad esempio per distinguere condizioni, come lo stato vegetativo e di minima coscienza, che oggi possono generare difficoltà diagnostiche. 

“Ora – spiega Massimini – lo studio verrà condotto a livello multicentrico, nelle università di Liegi, Copenaghen e Milano per testare e standardizzare la tecnica”. E continua: “La vera sfida per il futuro sarà capire perché lo stato di coscienza, la complessità del dialogo tra le diverse aree cerebrali, collassi e poi risorga: comprendere se si tratta di un problema funzionale e trovare la chiave da girare per favorire il risveglio è la direzione verso cui tende ora la ricerca”. 

Monica Panetto

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