SOCIETÀ

Cibo, la nuova frontiera del “porno” in Tv

A Natale tutti abbiamo mangiato troppo. Davanti alla tv siamo tutti voyeur. È difficile negare che sui palinsesti del piccolo schermo, oggi, dilaghino format basati su una presunta rappresentazione in tempo reale di eventi autentici, che accadono a persone qualsiasi: fioccano su emittenti “generaliste” e tematiche, presentano situazioni come scene di vita vissuta, in diretta o in differita, ma comunque girate (così vengono fatte apparire) senza filtri. Dalla gara di sopravvivenza alla lite giudiziaria, dal talent show alle trasmissioni su viaggi e fitness, dalla ricerca dell’amore al miglioramento di alcuni aspetti della propria vita quotidiana: l’assunto è che la platea televisiva si sia mutata, nei decenni, in una pletora di osservatori guardoni e maliziosi, il cui principale interesse (tralasciando alcuni ottimi programmi di reti specializzate) sia di spiare le vite altrui per trarne, oltre che intrattenimento, insegnamenti e ispirazione.

Un fenomeno di straordinario successo negli ultimi anni è il food porn: la rappresentazione “pornografica” del cibo, inteso come mondo del quale offrire una visione basata sullo splendore estetico e l’esaltazione dei protagonisti, fino a creare uno spettacolo visivo molto appagante basato sui commenti e sulla condivisione del piacere. È una tendenza televisiva e, di conseguenza, sociale: preparare (o acquistare) un piatto prelibato, fotografarlo e sottoporne l’immagine e la descrizione a un pubblico di utenti dei social network è diventata una passione di massa, e in Rete non si contano i canali specificamente dedicati a quest’attività, oltre alla presenza crescente su Facebook di post su questo argomento. Tra gli studiosi che si occupano di questa dinamica una tra le più attente è la sociologa Luisa Stagi, che a Padova ha tenuto una lezione al collegio universitario Don Mazza. La docente vede una connessione diretta tra l’esplosione del food porn e l’espansione di alcuni fenomeni recenti legati alla percezione collettiva del cibo e del suo impatto sul quotidiano: l’ortoressia (attenzione smodata per la qualità del cibo, della sua preparazione e per i criteri di alimentazione) e la gastro-anomia (impressione diffusa di mancanza di regole solide e socialmente condivise sulle abitudini e la sicurezza alimentare, e conseguente sensazione di insicurezza su questo tema).

Se il modo in cui una comunità presenta il suo “stile alimentare” suggerisce elementi importanti su come rappresenta se stessa, secondo la Stagi anche nell’Italia gastronomica (o almeno di ciò che ne emerge nei programmi televisivi) possiamo registrare una profonda evoluzione dal dopoguerra a oggi. Negli anni Cinquanta la rappresentazione del cibo in tv è funzionale al consolidamento dell’identità nazionale, in modo analogo a quanto avviene, ad esempio, per certe trasmissioni pedagogiche sulla lingua italiana. Viaggio lungo la valle del Po alla ricerca dei cibi genuini, di Mario Soldati (1957) è una rassegna dei saperi alimentari delle diverse tradizioni regionali, che si cerca di valorizzare in un’ottica non localistica ma, appunto, unificante, trattando l’argomento con un rigore e una serietà prima riservati ad altro. A tavola alle 7 (1974) è invece la prima trasmissione sulla preparazione di cibi in tv che presenta, attraverso i battibecchi “pilotati” di Luigi Veronelli e Ave Ninchi, la dialettica tra una cultura gastronomica borghese, moderna, cittadina e il richiamo alla tradizione popolare e contadina. Di quel modo garbato e rassicurante di presentare il cibo in tv oggi non resta quasi nulla. Ai valori degli alimenti legati alla stagionalità e alla tradizione locale oggi sono contrapposti (non sempre ma in grande prevalenza) quelli dell’enormità della scelta e della sovrabbondanza, dell’esotismo e della stravaganza. Secondo la Stagi il cibo, da elemento unificante, è diventato simbolo di appartenenza e di distinzione, secondo l’intuizione che fu di Pierre Bourdieu. Sintomatiche sono trasmissioni come Bizarre Foods, che si basano sul disgusto che il conduttore prova nell’affrontare cibi lontanissimi dalla propria cultura; o i format basati sui contrasti geografici nelle abitudini alimentari in casa, come nel caso dei “duelli” tra famiglie del Nord e Sud Italia, o tra i nuclei tutti italiani e quelli italo-stranieri, che si scambiano le madri-casalinghe e sperimentano la difficile convivialità in un contesto molto diverso da quello consueto. Un contrasto che, dalla materialità del cibo, si estende a tutto ciò che ne è cornice: l’arte dell’accoglienza, l’allestimento della tavola e delle sale dove si riceve, il galateo e le regole che presiedono a una cena perfetta. Proprio nei format “galateo e stile”, secondo la studiosa, emerge la diversa rappresentazione uomo-donna che caratterizza anche le trasmissioni di cucina: il protagonista maschile (sia il padrone di casa o lo chef stellato) è costantemente presentato come persona di gusto, raffinata e creativa, un professionista dotato di un talento eccezionale e una personalità singolare; la donna, al contrario, è legata a un ruolo dimesso e rassicurante: madre di famiglia più che padrona di casa, casalinga premurosa più che cuoca di alto livello. 

Dove il rapporto uomo-cibo si fa più drammatico, e forse più attuale e rappresentativo, è nel filone dei makeover: i format legati al cambiamento, la trasformazione di una situazione iniziale insoddisfacente in una appagante, attraverso un percorso ricco di colpi di scena e a volte tormentato. Se i makeover si applicano ormai a un’infinità di soggetti (dall’arredamento al modo di vestire, dal make up alle finiture della casa, dalla chirurgia estetica alle pulizie domestiche) è sul rapporto con il proprio peso che il genere assume connotazioni paradossali e inquietanti. La storia, in genere, si dipana attraverso più stadi predefiniti. C’è la rappresentazione iniziale dell’obesità, o del grave sovrappeso, come fallimento umano e sociale (sottolineata da fotografia e musiche malinconiche e atmosfere cupe) seguita dalla possibilità del riscatto attraverso la trasformazione di sé. La dieta, che avviene attraverso un meccanismo di spietato controllo e giudizio, passa per insuccessi e umiliazioni del protagonista, fino ad arrivare a vere e proprie forme di terrorismo mediatico, come nei format in cui si fanno vedere simulazioni dell’aspetto e delle malattie che caratterizzeranno in futuro i protagonisti e perfino i loro figli, quando sono questi ad essere affetti da obesità (non a caso, il titolo originale del format britannico dedicato ai bimbi male allevati è Tesoro, stiamo uccidendo i bambini). Alle fasi di paura e frustrazione, però, segue il trionfo, e il ritorno dell’ex obeso entro parametri di ordine e accettabilità da parte della propria comunità. Sottintese, in questo tipo di trasmissioni, sono la legittimità di una politica attiva e stringente contro i comportamenti a rischio e l’inaccettabilità dei costi sociali dovuti a condotte individuali non responsabili. La necessità di mettere ordine nella vita delle persone, e quindi il maggior controllo a tutela della salute pubblica, giustificherebbe insomma l’invadenza nella quotidianità dei singoli individui. Una visione collegata, evidentemente, al culto per il benessere e la forma fisica che in tv costituisce un’altra miniera. Un’analisi, quindi, dalla quale emerge che il cibo, per come si impone oggi sugli schermi, è un’entità del tutto virtuale, da ammirare ma da non toccare: e se è questo il piacere proibito televisivo del Duemila, di certo non c’è da stare allegri. 

Martino Periti

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